Guerra & Pace

Sto leggendo Guerra e pace di Lev Nikolaevič Tolstoj. Chissà come mai, ma nonostante abbia letto tanti di quei romanzi di letteratura russa, Guerra e pace l’avevo cominciato a leggere una volta, ma mi ero fermata presto e non ero più andata avanti, in parte perché c’erano diverse parti in francese non tradotte e mi davano a noia. Stavolta ho deciso che il francese lo capisco anche se non l’ho mai studiato. E comunque sì, sto leggendo Guerra e pace ed è una lettura immersiva, intrigante, estremamente piacevole e questo perché Tolstoj era una persona che sapeva scrivere divinamente e questa naturalezza della narrazione e il piacere della lettura che ne deriva difficilmente lo riesci a trovare altrove. Tralasciando per un attimo gli aspetti formali legati alla scrittura, Guerra e pace è anche un romanzo che ancora ha tanto da dire: le sottili osservazioni sui comportamenti e la psicologia della persone che lui descrive possono valere lì dove sono ambientati, nei più lussuosi salotti dell’aristocrazia russa dell’800, come in qualsiasi altro luogo o epoca. La guerra, la campagna russa contro Napoleone Bonaparte, è la grande protagonista del romanzo, riempie i pensieri e le gesta dei protagonisti, modella le loro vite e certi commenti che stimola possiedono anch’essi una freschezza e lucidità di pensiero contemporanea, tanto più in questo momento tanto incerto che stiamo vivendo tra Russia e Ucraina.

– Se tutti facessero la guerra per convinzione, non ci sarebbero guerre, – disse egli.
– E sarebbe una bellissima cosa, – disse Pierre.
Il principe Andrej sorrise.
– Forse sarebbe una bellissima cosa, ma questo non sarà mai…
– Ma voi perché andate alla guerra? – domandò Pierre.
– Perché? Non lo so. Bisogna far così. E poi, io ci vado… – Si fermò. – Io ci vado perché questa vita che conduco qui, questa vita non fa per me.

Parlare di Tolstoj e cucina, inoltre, è interessante perché – non so se lo sapete – ma lui decise a un certo punto della sua vita di diventare vegetariano per assecondare una sua visione morale e filosofica dell’esistenza. Rimase vegetariano per 25 anni, ma non rinunciò mai a formaggio e uova, di queste ultime in particolare ne andava ghiotto e le cucinava nei modi più disparati. Negli ultimi anni prima della sua morte, avvenuta nel 1910 all’età di 82 anni, per una serie di ragioni i rapporti con la moglie e con i suoi figli andarono a deteriorarsi sempre di più, si dice che uno dei motivi minori per cui questo accadde riguarda proprio le sue abitudini alimentari. La moglie infatti non accettò di buon grado questa sua decisione e nonostante da quel momento in poi chiese al cuoco di preparare sempre due menu diversificati: uno vegetariano per il marito e le figlie che seguirono il suo esempio e uno onnivoro per tutti gli altri, non si rassegnò facilmente al fatto che Lev non voleva più mangiare carne, pensava che questo lo indebolisse e fosse dannoso alla sua salute, per questa ragione ogni tanto – soprattutto quando il marito era malato – chiedeva al cuoco di mettere in segreto un po’ di brodo di manzo nelle sue zuppe e quando lui lo veniva a scoprire andava su tutte le furie.

Come in quasi tutte le famiglie nobili dell’epoca, i pasti a Jasnaja Poljana erano un momento importante della giornata, soprattutto quando erano motivo di ritrovo tra amici e parenti, e intorno a essi si andarono a creare tante storie e aneddoti; tuttavia ripercorrendo le ricette che si era soliti preparare a casa Tolstoj non troviamo piatti particolarmente elaborati e raffinati, bensì ricette tipiche della tradizione popolare come vareniki, uova fritte, torta di patate, zuppa di funghi o dolci fatti in casa. Sof’ja Andreevna Tolstaja, moglie del celebre scrittore, mise insieme ai suoi tempi un ricettario che includeva tutte le principali preparazioni della famiglia, tra queste quelle più interessanti sono proprio quelle che prendono il loro nome da conoscenti e familiari: la torta del dottor Anke, la torta pasquale dei Bestuzhev, il kvas al limone di Marusia Maklakova, la torta di mele di Maria Foeth e così via. In particolare la torta del dottor Anke (un amico della madre di Sof’ja Andreevna che passò la ricetta alla famiglia) diventò un dolce irrinunciabile sulla tavola Tolstoj in occasione di ogni celebrazione importante, tanto che il figlio Ilya ricorda che “tutte le tradizioni di famiglia (e nostra madre ne introdusse molte nelle nostre vite) iniziarono a essere chiamate torta del dottor Anke. Mio padre si burlava a volte della torta del dottor Anke, chiamando torta tutte le abitudini di mia madre, benché anche lui, in quel tempo lontano della mia giovinezza, non potesse fare a meno di apprezzarla”.

In cosa consisteva questo dolce? Si trattava essenzialmente di una torta ripiena al limone. Ora, la ricetta originale di casa Tolstoj non ve la sto a riproporre perché contiene una quantità smisurata di burro e uova, al contrario ho preparato una bella crostata con ripieno al limone, che sicuramente in qualche modo può ricordarla. Siete pronti a renderla anche voi protagonista di anniversari e compleanni? Vi lascio la ricetta qui sotto. Se avete curiosità o domande lasciate un commento o scrivetemi!

INGREDIENTI:

Per la crema

  • 600 g di latte di soia
  • 120 g di zucchero bianco finissimo
  • 80 g di succo di limone (+ la buccia di uno)
  • 70 g di amido di mais
  • 1 pizzico di curcuma (facoltativo, per il colore giallo)

Per la frolla

  • 350 g di farina 2
  • 100 g di zucchero bianco
  • 70 g di acqua
  • 70 g di olio di girasole
  • 8 g di lievito per dolci
  • buccia grattugiata di un limone

Iniziate a preparare la crema unendo tutti gli ingredienti eccetto la curcuma in una pentola fuori dal fuoco e mescolate con una frusta fino ad eliminare ogni grumo. Accendete il fuoco e continuando a mescolare fate sobbollire unendo anche la buccia del limone finché la crema non risulterà densa e omogenea. Quando è ancora liquida aggiungete anche la curcuma per ottenere un bel colore giallo intenso. Eliminate la buccia di limone, togliete dal fuoco e lasciate raffreddare.

Per la frolla, preriscaldate il forno a 180° in modalità statica. In una ciotola ampia aggiungete zucchero, olio, acqua e e la scorza grattugiata del limone, unite poi la farina e il lievito e impastate fino a ottenere un panetto omogeneo, potete completare il lavoro su un piano infarinato. Stendete con l’aiuto di un matterello 3/4 dell’impasto fino a ottenere un disco di 4mm circa.

Oliate e spolverate di farina una tortiera con fondo estraibile di 26 cm di diametro. Sempre con l’aiuto del matterello trasferite l’impasto nella tortiera e fate aderire bene ai bordi facendo pressione con le mani. Bucherellate il fondo con una forchetta e ricoprite con la crema al limone.

Con l’impasto rimasto create delle strisce sottili e formate una rete sopra la torta. A questo punto è pronta per essere infornata per 40′ a 180°. Controllate sempre la cottura perché può sempre variare a seconda del forno o dello spessore della vostra frolla.

Sono il fratello di XX

Cosa pensare di questo libro?

Non lo so bene. È una raccolta di racconti impalpabile: un sogno, un incubo, qualcosa del genere, con personaggi che insinuano una subdola oscenità nel sacro e viceversa. Sono storie tristi, alcune molto belle, altre a mio parere dimenticabili, in ogni caso tutte connotate da malinconia, eleganza, angoscia e necessità di colmare un grande vuoto esistenziale. Sicuramente non una lettura facile, a tratti quasi disturbante, ma che in ciò lascia un segno, un ricordo. E di ricordi, apparizioni dal passato sono piene le pagine di questo libro, in bilico tra il realismo e il fantastico, dove domina uno stile che gli etologi chiamano Übersprung, come si dice nella nota di copertina, un’oscura frenesia dell’orrore. Si accenna a questo fenomeno nel brevissimo racconto, quasi un flash, chiamato Gatto. Se si osserva un gatto mentre cerca di acchiappare una qualsiasi preda, si potrà notare che a un certo punto, proprio quando sta per raggiungere il suo bersaglio, l’animale si distrae, sposta la sua attenzione su qualcos’altro.

Muta la rotta mentale. È come un momento morto. La stasi. […] Così fa il gatto. Distoglie anche se stesso dall’agonia. Che ha inferto. Non sappiamo perché accada che il gatto volga lo sguardo altrove. Lui lo sa. Chissà, forse è delectatio morosa, questo Übersprung. Il malinconico disfarsi di un legame con la vittima. Übersprung: parola che riguarda anche noi. È il volgersi altrove, passare ad altro, manifestare il gesto del distacco, come un addio. La divagazione dal tema, l’evasione da una parola, e insieme la caccia alle parole, il disfarsene: sono altrettanti modi mentali dello scrivere.

Sempre nelle note di copertina si parla di una certa “calma piatta” che pervade le atmosfere del libro, e io la ritrovo soprattutto nell’inadeguatezza delle capacità comunicative delle creature che popolano queste pagine, come nel racconto Il velo di pizzo nero in cui la protagonista si rende conto di quanto sua madre, ora morta, fosse depressa quando era ancora in vita solo adesso, guardando una sua vecchia foto o ancora in Tropici che parla del disagio di una coppia di fratello e sorella che in realtà non si conoscono per niente; i personaggi si perdono nel non detto, nell’ambiguità delle parole che a volte è meglio non pronunciare ma che in qualche modo si devono pronunciare, in strani silenzi che a volte riescono a trovare sfogo solo in impulsi terribili e cattivi come nei racconti La voliera o L’erede, e questo immergersi nelle pulsioni più nere dell’animo umano pare essere piuttosto congeniale per l’autrice zurighese. La prosa di Fleur Jaeggy è magra e affilata, sono racconti molto cerebrali in cui si dà poco spazio alla sensibilità. Il racconto iniziale che dà il nome alla raccolta – per inciso, il mio preferito – è in questo senso molto eloquente: sono il fratello di XX. Parla di un ragazzo, dei gesti della sua piccola vita sospesa, che come altri personaggi qui dentro ha problemi con il sonno, divorato da una non ben definita angoscia esistenziale, per dormire ha bisogno di sonniferi (una situazione ricorrente nei vari racconti), dialoga con la morte, dice del padre che è una persona molto sensibile e distratta

Tra l’altro vorrei dire subito che le persone sensibili sono distratte. A loro non importa assolutamente niente degli altri. Le persone sensibili, o tanto sensibili da essere dichiarate sensibili, come se fosse una gran qualità, sono insensibili ai dolori degli altri.

e ti lascia con un drammatico, teatrale epilogo.

Un libro che nel complesso mi ha dato l’impressione di essere aristocratico, raffinato, molto triste, quindi mangiateci insieme un tiramisù se non volete andare troppo giù.

Vi lascio la ricetta qui sotto di una versione vegan di questo tanto famoso dolce che ho mutuato dal GialloZafferano, provatela e fatemi sapere cosa ne pensate, era la prima volta che la facevo e secondo me ci possono essere margini di miglioramento nel mix degli ingredienti, ma tutto sommato mi ha soddisfatto. La base è una sorta di pan di Spagna da spezzettare per costruire poi i vari strati, mentre la crema si ottiene con tofu e panna di soia da montare.

INGREDIENTI:

PER LA BASE:

  • 180 g di farina 00
  • 70 g di fecola di patate
  • 12 g di lievito per dolci
  • 140 g di latte di riso a temperatura ambiente
  • 120 g di olio extravergine di oliva
  • 100 g di zucchero di canna fine

PER LA CREMA:

  • 400 g di tofu vellutato
  • 40 g di zucchero di canna fine
  • 1 baccello di vaniglia
  • 300 g di panna di soia da montare

PER LA BAGNA:

  • 250 g di caffé espresso
  • cacao q.b. per guarnire

PROCEDIMENTO:

In una ciotola mescolare lo zucchero con l’olio fino a farlo sciogliere. In un altro recipiente setacciare la farina, il lievito e la fecola. Unire le polveri ai liquidi mescolando con una frusta per non creare grumi. Aggiungere lentamente anche il latte e continuare a mescolare fino a ottenere un composto omogeneo. Ricoprire di carta forno una teglia da 20 cm e fare cuocere l’impasto in forno preriscaldato statico a 180° per 35 minuti.

Intanto frullare il tofu vellutato insieme allo zucchero, incidere il baccello di vaniglia e aggiungere i semi alla crema. A parte montare la panna e aggiungerla poi molto delicatamente al resto della crema dall’alto in basso per non smontarla.

Una volta che la base sarà fredda ricavarne delle forme adatte al contenuto del recipiente dove metterete il vostro tiramisù e iniziate a comporre gli strati: base – caffè – crema e così via, spolverando infine la superficie con del cacao amaro. Per la crema potete aiutarvi con un sac à poche. Prima di servire lasciare riposare in frigorifero almeno un’ora.

Antipasto verde

Tra chiusure lavorative, cene natalizie, ricerca disperata dei regali, in questo periodo purtroppo ho poco tempo per leggere, aspetto impaziente le vacanze per potere recuperare. Quindi oggi mi tocca boicottare i libri, va be’ ve ne avevo proposti tanti già nell’ultimo articolo, e vi metterò invece la ricetta di un antipasto che potete proporre a Natale e che renderà tutti felici, ne sono sicura. Io nelle cene o pranzi di famiglia sono sempre stata quella che preparava l’antipasto, ogni anno mi piace cercare nuove ricette colorate e gustose, e da un paio di anni a questa parte anche interamente vegetali, come per esempio i falafel di piselli che vi metto qui sotto. In realtà ho già in mente tutta una lunga lista di cose da fare, in realtà troppe, che vi elenco prima di mettere la ricetta, se vi va nei commenti potete dirmi quali piatti vi ispirano di più e seguirò i vostri suggerimenti, perché di sicuro tutto non riuscirò a fare dal momento che ahimè no, non vivo ancora in un mondo fatato dove posso trascorrere la mia intera giornata dietro i fornelli a spadellare e infornare.

Ecco i piatti a cui avevo pensato (oltre chiaramente ai falafel che sono stati testati, approvati e non mancheranno):

  • Tofu in salsa teryaki
  • Farinata di ceci
  • Hummus natalizio con chicchi di melograno
  • Mini quiche di zucca e funghi
  • Mini quiche di spinaci
  • Frittini di verdure
  • Spiedini di tempeh (inspo: Cucina Botanica)
  • Cous cous con pesto di rucola (anche qui, inspo: Cucina Botanica)
  • Crostini con paté di olive

Vorrei andare a svaligiare i supermercati e preparare tutto! Ma per il momento parliamo di questi falafel verdissimi accompagnati da una salsina al sesamo che secondo me è la fine del mondo e potete riciclare anche per tantissimi altri accompagnamenti. Da servire come antipasto le dosi che vi metto vi basteranno per circa 4 persone, ma potete chiaramente raddoppiarle a seconda del vostro bisogno.

Cosa vi servirà?

Per i falafel:

  1. 450 g di piselli (io ho preso quelli novelli surgelati)
  2. mezzo spicchio di aglio privato dell’anima
  3. metà cipolla piccola
  4. 1 cucchiaino di curry
  5. 1 cucchiaino di paprika affumicata
  6. prezzemolo q.b.
  7. menta q.b.
  8. pangrattato q.b.
  9. olio extravergine di oliva
  10. sale e pepe

Per la salsa:

  1. 50 g di tahina (anche 60 forse se la volete più densa)
  2. succo di mezzo limone
  3. 20 g di acqua
  4. 1 cucchiaino di senape
  5. 1 goccio di salsa di soia
  6. sale e peperoncino a piacere (io ho usato un pizzico di pepe di Cayenna)

Cuocete i piselli in acqua salata bollente come da indicazioni, una volta scolati metteteli in un frullatore insieme all’aglio, la cipolla, le spezie, il prezzemolo e la menta e tritate il tutto non troppo finemente. Aggiustate la consistenza con del pangrattato e lasciate riposare per 15 minuti.

A quel punto accendete il forno e mettetelo a 200°, formate delle palline e riponetele su una teglia ricoperta da carta forno, appiattitele un po’ nel mezzo e spennellatele con dell’olio extravergine, aggiungete anche un pizzico di paprika affumicata. Cuocete in forno per 20 minuti circa, finché non formano una bella crosticina, una volta tolte io ci ho aggiunto anche dei fiocchi di sale e le ho bagnate con un po’ di limone.

Per la salsa invece basta che mescoliate per bene in una ciotola tutti gli ingredienti sopra elencati, potete renderla meno o più densa a seconda dei vostri gusti, io la trovo strepitosa, e potete utilizzarla per esempio anche quando mangiate dei burger vegetali o come condimento per le verdure, coi broccoli per esempio è la fine del mondo, provatela e fatemi sapere!

Non dimenticatevi di farmi sapere quali altri antipasti della lista sopra secondo voi dovrei aggiungere!

Atti di sottomissione

Ho appena finito di leggere Atti di sottomissione di Megan Nolan e ho concluso l’ultima pagina dominata da sentimenti contrastanti. Ho letto in giro molti paragoni tra questa autrice e Sally Rooney, entrambe cosiddette millenials, irlandesi, giovani ragazze che scrivono di altrettanto giovani tormentate con relazioni disfunzionali. Sì, in parte il contesto le accomuna, ma ho letto Persone normali nonostante non sia esattamente il tipo di letteratura che mi attiri normalmente e lì non c’è molto di quella spudorata onestà e asprezza che caratterizza invece il testo della Nolan. Ed è proprio nell’andatura così diretta che risiede secondo me il punto di forza di questo libro, differenziandolo e rendendolo a mio parare più interessante di Sally Rooney, anche se mi rendo conto che il confronto tra le due sia del tutto gratuito e non richiesto.

Atti di sottomissione è la storia di una ragazza nella prima metà dei suoi vent’anni che vive a Dublino dove incontra Ciaran, scrittore danese trapiantato in Irlanda per restare vicino al padre malato, durante una serata in una galleria d’arte. Quella che poteva essere una normale storia d’amore tra due giovani ragazzi si trasforma presto in una sorta di incubo amichevole a causa del temperamento di lui, anaffettivo e a tratti respingente, reso ancora più spigoloso dalla presenza ingombrante di una ex importante, Freya, e a causa del rapporto malsano di lei con il cibo, con l’alcol, con le proprie insicurezze che la conducono spesso in dinamiche di auto-umiliazione. Il rapporto tra i due vive della costante volontà di lei di sottomettersi a qualsiasi cosa possa compiacere Ciaran, si basa sull’auto-convincimento che isolati momenti di sincero affetto possano annullare mille altre parole pungenti o comportamenti sprezzanti. Eppure la relazione tra i due va avanti e si accomoda su gesti abituali e confortanti come l’andare a letto insieme ogni sera, cucinare una buona cena al rientro dal lavoro, fare delle passeggiate senza meta per Dublino e così via. Vanno avanti, ciascuno a suo modo anestetizzato dai comportamenti dell’altro, fino a che il passato, certe esagerazioni legate all’alcol o al sesso che erano state soppresse per non irritare Ciaran tornano prepotenti nella vita della protagonista compromettendo per sempre il rapporto con Ciaran, il cui epilogo non rientra certo nella categoria “lieto fine”.

Il fatto che non veniamo mai a conoscenza di quale sia il nome della narratrice è già significativo di per sé. Lei non ha un nome perché non ha un’identità e ciò su cui si basa l’intera narrazione è appunto il racconto di questa mancanza di fuoco, di questo tentativo disperato di aggrapparsi a qualsiasi cosa possa renderla più piacevole e accettabile agli occhi degli altri senza mai preoccuparsi di essere davvero in pace con sé stessa. Ha abbandonato gli studi e si guadagna da vivere come cameriera prima e come impiegata in uno studio dentistico poi, un lavoro facile, che semplicemente le permetta di vivere e di sostentare l’acquisto di vestiti carini e sbronze pazzesche con i suoi amici. Sembra genetica l’incapacità di stare sola, di bastare a sé stessa, in un passaggio dice “Quando stavo con gli altri mi sentivo vera; era questo il motivo per cui volevo essere innamorata”, e in particolare sessualità e identità vanno per lei di pari passo, come se solo nel gesto di darsi agli altri possa sentirsi davvero viva e non un corpo inutile che cammina di qua e di là in un appartamento vuoto aspettando le sette per aprire il vino. Ciaran si presenta a lei come un soggetto integro, bastante a sé stesso, ed è forse questo aspetto, al di là della sua straordinaria bellezza, che la affascina più di tutto. Ma la loro storia si rivela essere la parabola di ciò che può esserci di sbagliato in una relazione, niente di troppo evidente all’inizio, non mancano i momenti belli, di sincero godimento, ma è proprio nei dettagli che si annida la tossicità e infatti alla fine tutto esplode.

Atti di sottomissione è nella sua trama in fondo molto semplice, ma l’ho trovato interessante e degno di una lettura per due motivi in particolare. Il primo è perché non è così scontato trovare dei resoconti così brutalmente sinceri delle insicurezze e dei meccanismi di auto-sabotaggio che una persona può potenzialmente nascondere in sé e che questa narrazione in prima persona ci sbatte in faccia senza troppi complimenti; il secondo è che dalla narrazione della storia tra lei e Ciaran scaturiscono in fondo degli spunti di riflessioni non banali su quelle che sono le dinamiche del rapporto uomo-donna e sulla natura del desiderio femminile. Non banali perché contrariamente alla narrazione contemporanea che vuole (seppur giustamente) la donna forte e totalmente padrona delle sue relazioni, qui ci mostra qualcuno che questo potere non lo sa gestire per niente e diventa vittima degli uomini che incontra anche se nella sua visione si rende conto di essere totalmente partecipe e consapevole delle oscenità che commette. Una cosa che lascia il lettore, e soprattutto la lettrice femminile, abbastanza spiazzata.

Per lei non ci sarà altro soluzione e cura per il suo io scisso se non quella di scappare lontano, in Grecia, nell’ultimo disperato tentativo di venire a patti con sé stessa.

IL PIATTO DEL LIBRO: Atti di sottomissione è un libro che parla di esagerazione, di eccessi, tanto nella sfera sessuale che in quella legata al cibo. Nella mia testa l’ingrediente che più si associa a questa dimensione è il cioccolato. Splendida scappatoia dalle rigidità della vita, può essere consolatorio, eccitante, provocatorio. Avete voglia di perdervi nella lascivia di un tortino al cioccolato con cuore caldo e fondente? Allora preparatevi ad affondare il cucchiaio. C’è anche l’ingrediente a sorpresa!

INGREDIENTI per 3/4 TORTINI:

  • 65 g di farina bio 00
  • 30 g g di cacao amaro
  • 100 g di cioccolato fondente
  • 1 bicchiere di latte di soia
  • 50 ml di olio di semi di girasole o olio di cocco
  • 2 cucchiaini di lievito per dolce vanigliato
  • 70 g di zucchero di canna
  • un pizzico di sale
  • 1 cucchiaino di pepe di cayenna (se lo volete proprio pungente, se siete meno pazzi di me diminuite le dosi, per esempio solo mezzo o 1/4 di cucchiaino, comunque se avete il mal di gola o la tosse vi passa tutto!)
  • zucchero a velo q.b.
  1. Sciogliere il cioccolato a bagnomaria con il pepe di cayenna e farlo raffreddare.
  2. Preriscaldare il forno a 200°, modalità statica.
  3. Unire tutti gli ingredienti secchi in una ciotola, ossia la farina, il cacao, lo zucchero, il sale e il lievito.
  4. A filo unire anche gli ingredienti liquidi, olio e latte, fino ad ottenere un composto fluido ma non troppo acquoso.
  5. Per ultimo aggiungere il cioccolato fuso incorporandolo al resto dell’impasto.
  6. Ungere dei pirottini di alluminio, spolverarli con il cacao e riempirli per poco più di metà della loro capienza.
  7. Infornare a 220° per 10/12 minuti (rispettare il tempo di cottura è fondamentale per ottenere l’effetto desiderato di cuore fondente).
  8. Una volta pronti, capovolgere e cospargere con un sottile velo di zucchero a velo.

CITAZIONE DAL LIBRO:

Quello è il momento in cui sarebbe dovuta finire. Adesso mi sembra folle che sia andata avanti, ma ero ancora convinta di amarlo e che tradirlo fosse un sintomo della mia innata slealtà. Non meritavo amore ma ne avevo bisogno. L’idea di dirglielo andava semplicemente oltre la mia immaginazione. L’idea di troncare la nostra vita domestica, le attenzioni quotidiane; l’idea di dovermi svegliare la mattina senza di lui. Non riuscivo a visualizzarlo. La mia non era solo paura, ero sinceramente incapace di concepire un mondo in cui accadevano queste cose. Soffrivo moltissimo, le bugie e le omissioni, i sorrisi, gli orgasmi che dovevo fingere. Ma non era la prima volta. Sapevo che sarebbe passata. Una persona può abituarsi a tutto.