Guerra & Pace

Sto leggendo Guerra e pace di Lev Nikolaevič Tolstoj. Chissà come mai, ma nonostante abbia letto tanti di quei romanzi di letteratura russa, Guerra e pace l’avevo cominciato a leggere una volta, ma mi ero fermata presto e non ero più andata avanti, in parte perché c’erano diverse parti in francese non tradotte e mi davano a noia. Stavolta ho deciso che il francese lo capisco anche se non l’ho mai studiato. E comunque sì, sto leggendo Guerra e pace ed è una lettura immersiva, intrigante, estremamente piacevole e questo perché Tolstoj era una persona che sapeva scrivere divinamente e questa naturalezza della narrazione e il piacere della lettura che ne deriva difficilmente lo riesci a trovare altrove. Tralasciando per un attimo gli aspetti formali legati alla scrittura, Guerra e pace è anche un romanzo che ancora ha tanto da dire: le sottili osservazioni sui comportamenti e la psicologia della persone che lui descrive possono valere lì dove sono ambientati, nei più lussuosi salotti dell’aristocrazia russa dell’800, come in qualsiasi altro luogo o epoca. La guerra, la campagna russa contro Napoleone Bonaparte, è la grande protagonista del romanzo, riempie i pensieri e le gesta dei protagonisti, modella le loro vite e certi commenti che stimola possiedono anch’essi una freschezza e lucidità di pensiero contemporanea, tanto più in questo momento tanto incerto che stiamo vivendo tra Russia e Ucraina.

– Se tutti facessero la guerra per convinzione, non ci sarebbero guerre, – disse egli.
– E sarebbe una bellissima cosa, – disse Pierre.
Il principe Andrej sorrise.
– Forse sarebbe una bellissima cosa, ma questo non sarà mai…
– Ma voi perché andate alla guerra? – domandò Pierre.
– Perché? Non lo so. Bisogna far così. E poi, io ci vado… – Si fermò. – Io ci vado perché questa vita che conduco qui, questa vita non fa per me.

Parlare di Tolstoj e cucina, inoltre, è interessante perché – non so se lo sapete – ma lui decise a un certo punto della sua vita di diventare vegetariano per assecondare una sua visione morale e filosofica dell’esistenza. Rimase vegetariano per 25 anni, ma non rinunciò mai a formaggio e uova, di queste ultime in particolare ne andava ghiotto e le cucinava nei modi più disparati. Negli ultimi anni prima della sua morte, avvenuta nel 1910 all’età di 82 anni, per una serie di ragioni i rapporti con la moglie e con i suoi figli andarono a deteriorarsi sempre di più, si dice che uno dei motivi minori per cui questo accadde riguarda proprio le sue abitudini alimentari. La moglie infatti non accettò di buon grado questa sua decisione e nonostante da quel momento in poi chiese al cuoco di preparare sempre due menu diversificati: uno vegetariano per il marito e le figlie che seguirono il suo esempio e uno onnivoro per tutti gli altri, non si rassegnò facilmente al fatto che Lev non voleva più mangiare carne, pensava che questo lo indebolisse e fosse dannoso alla sua salute, per questa ragione ogni tanto – soprattutto quando il marito era malato – chiedeva al cuoco di mettere in segreto un po’ di brodo di manzo nelle sue zuppe e quando lui lo veniva a scoprire andava su tutte le furie.

Come in quasi tutte le famiglie nobili dell’epoca, i pasti a Jasnaja Poljana erano un momento importante della giornata, soprattutto quando erano motivo di ritrovo tra amici e parenti, e intorno a essi si andarono a creare tante storie e aneddoti; tuttavia ripercorrendo le ricette che si era soliti preparare a casa Tolstoj non troviamo piatti particolarmente elaborati e raffinati, bensì ricette tipiche della tradizione popolare come vareniki, uova fritte, torta di patate, zuppa di funghi o dolci fatti in casa. Sof’ja Andreevna Tolstaja, moglie del celebre scrittore, mise insieme ai suoi tempi un ricettario che includeva tutte le principali preparazioni della famiglia, tra queste quelle più interessanti sono proprio quelle che prendono il loro nome da conoscenti e familiari: la torta del dottor Anke, la torta pasquale dei Bestuzhev, il kvas al limone di Marusia Maklakova, la torta di mele di Maria Foeth e così via. In particolare la torta del dottor Anke (un amico della madre di Sof’ja Andreevna che passò la ricetta alla famiglia) diventò un dolce irrinunciabile sulla tavola Tolstoj in occasione di ogni celebrazione importante, tanto che il figlio Ilya ricorda che “tutte le tradizioni di famiglia (e nostra madre ne introdusse molte nelle nostre vite) iniziarono a essere chiamate torta del dottor Anke. Mio padre si burlava a volte della torta del dottor Anke, chiamando torta tutte le abitudini di mia madre, benché anche lui, in quel tempo lontano della mia giovinezza, non potesse fare a meno di apprezzarla”.

In cosa consisteva questo dolce? Si trattava essenzialmente di una torta ripiena al limone. Ora, la ricetta originale di casa Tolstoj non ve la sto a riproporre perché contiene una quantità smisurata di burro e uova, al contrario ho preparato una bella crostata con ripieno al limone, che sicuramente in qualche modo può ricordarla. Siete pronti a renderla anche voi protagonista di anniversari e compleanni? Vi lascio la ricetta qui sotto. Se avete curiosità o domande lasciate un commento o scrivetemi!

INGREDIENTI:

Per la crema

  • 600 g di latte di soia
  • 120 g di zucchero bianco finissimo
  • 80 g di succo di limone (+ la buccia di uno)
  • 70 g di amido di mais
  • 1 pizzico di curcuma (facoltativo, per il colore giallo)

Per la frolla

  • 350 g di farina 2
  • 100 g di zucchero bianco
  • 70 g di acqua
  • 70 g di olio di girasole
  • 8 g di lievito per dolci
  • buccia grattugiata di un limone

Iniziate a preparare la crema unendo tutti gli ingredienti eccetto la curcuma in una pentola fuori dal fuoco e mescolate con una frusta fino ad eliminare ogni grumo. Accendete il fuoco e continuando a mescolare fate sobbollire unendo anche la buccia del limone finché la crema non risulterà densa e omogenea. Quando è ancora liquida aggiungete anche la curcuma per ottenere un bel colore giallo intenso. Eliminate la buccia di limone, togliete dal fuoco e lasciate raffreddare.

Per la frolla, preriscaldate il forno a 180° in modalità statica. In una ciotola ampia aggiungete zucchero, olio, acqua e e la scorza grattugiata del limone, unite poi la farina e il lievito e impastate fino a ottenere un panetto omogeneo, potete completare il lavoro su un piano infarinato. Stendete con l’aiuto di un matterello 3/4 dell’impasto fino a ottenere un disco di 4mm circa.

Oliate e spolverate di farina una tortiera con fondo estraibile di 26 cm di diametro. Sempre con l’aiuto del matterello trasferite l’impasto nella tortiera e fate aderire bene ai bordi facendo pressione con le mani. Bucherellate il fondo con una forchetta e ricoprite con la crema al limone.

Con l’impasto rimasto create delle strisce sottili e formate una rete sopra la torta. A questo punto è pronta per essere infornata per 40′ a 180°. Controllate sempre la cottura perché può sempre variare a seconda del forno o dello spessore della vostra frolla.

Dostoevskij, lo scrittore del giallo

Ci sono due pregiudizi in particolare che vorrei estirpare dalla testa delle persone. Il primo è che i broccoletti non siano anche buonissimi oltre che sani, il secondo è che la letteratura russia sia un noioso mattone. Niente di più falso. Nel tentativo di spiegarvi perché, ho ripreso in mano uno dei suoi più grandi classici, Delitto e castigo.

Questo anche perché vorrei restituire un connubio tra letteratura e cucina che non sia necessariamente legato solo alla nazionalità dell’autore o all’ambientazione del libro. È possibile infatti ritrovare, soprattutto nella grande letteratura, un incredibile gioco dei sensi che va a supportare e innalzare il semplice impianto narrativo. Dostoevskij in particolare è famoso per certe ambientazioni che ha saputo creare nei suoi romanzi in cui si percepisce un senso di claustrofobia o asfissia che spesso risulta uno specchio di ciò che accade nella mente dei suoi protagonisti. Delitto e castigo stesso ha un incipit che immediatamente vuole afferrare il lettore e immergerlo nell’atmosfera del romanzo: “All’inizio di un luglio straordinariamente caldo”. Ci dimentichiamo subito della Russia dei grandi freddi per iniziare a provare quel senso di soffocamento dato da un’eccessiva umidità o afosità estiva, che ti obnubila la mente e mette in allerta il sistema nervoso. Questo è il quadro in cui viaggeremo, almeno nella prima parte (e diciamocelo, quella più interessante) del romanzo e Dostoevskij lo mette bene in chiaro fin da subito. “Per strada c’era una caldo soffocante, afoso, e c’era gente dappertutto, dovunque c’era calce, legno, mattoni, polvere, e quel particolare lezzo estivo, così familiare a tutti gli abitanti di Pietroburgo che non abbiano la possibilità di affittarsi una dacia: tutto ciò improvvisamente scosse i nervi del giovane che erano già piuttosto tesi.”

Dostoevskij è poi lo scrittore del giallo non tanto perché, soprattutto in Delitto e castigo, mette in scena un omicidio, ma perché Pietroburgo, la città dove sono ambientati tanti dei suoi romanzi compreso gran parte di questo, è lo scenario perfetto per la follia dei suoi protagonisti. Non è la Pietroburgo dagli scenari grandiosi, ma una Pietroburgo fatta di piccoli vicoli, di mansarde, di povera gente che ogni giorno fa i conti con la vita, è una città colorata di giallo, il colore predominante di ogni sua descrizione, il coloro della malattia, della carta da parati giallognola e polverosa che si stacca dalle pareti dello stanzino in cui sta in affitto il giovane Raskòl’nikov.

La storia ormai la conoscete tutti. Rodiòn Romànovič Raskòl’nikov, ex studente di legge costretto ad abbandonare gli studi per problemi economici, spinto dall’indigenza e da un livore generale verso la società che lo circonda decide di uccidere una vecchia usuraia di sua conoscenza, nella convinzione che certe persone straordinarie abbiano il diritto di andare al di là della morale impunite, ossia commettere atti volti a delinquere purché vi sia un fine superiore a giustificarli, questo secondo Rodja divide gli uomini ordinari dal superuomo di stampo nietzschiano. Salvo poi, una volta commesso il delitto, duplice perché ne risulta vittima anche la sorella dell’usuraia, essere divorato dalla paranoia e dalla desolazione psicologica che quest’azione scatenano nel giovane, salvato poi solo dall’incontro con Sonja, un’anima pura e caritatevole, costretta a prostituirsi per mantenere la famiglia, che lo condurrà nell’epilogo sulla via del pentimento e della salvezza.

Ma perché ancora oggi, a più di 150 anni dalla sua pubblicazione, rimane un libro da leggere? Ci sono diversi motivi. Uno di questi è che Dostoevskij fu uno dei primi scrittori a restituire una descrizione della psiche umana e dei suoi meccanismi tanto straordinariamente accurata da risultare quasi fastidiosa e difficilmente altri dopo di lui riuscirono a farlo altrettanto bene. Leggendo non possiamo fare a meno di immedesimarci nei ragionamenti del protagonista e condividerne manie e tormenti. Dostoevskij fu il primo scrittore a essere in grado di mettere in scena uno dei tratti fondamentali che caratterizza l’uomo, la scissione dell’io, e ciò che lo rende un classico è il fatto che i temi da lui trattati non siano invecchiati, che la nevrosi degli uomini del sottosuolo dostoevskiani sia la medesima che colpisce l’uomo moderno. Il nome stesso del protagonista, Raskòl’nikov, deriva dal verbo russo раскалывать che significa spaccare, scindere. Il disprezzo e la frustrazione verso la propria condizione misera che lo portano ad avere sentimenti contrastanti nei confronti della società, a metterne in discussione lo status quo, a ridisegnarne le regole sono assolutamente contemporanei. Raskòl’nikov è un uomo in cui, come in ciascuno di noi, convivono sentimenti contrastanti, a volte estremi: la freddezza dell’omicidio derivata dalla riflessione e un’isteria quasi paralizzante, il cinismo e il pentimento, la rabbia e un sentimentalismo pervasivo. L’atto criminale da lui commesso non è fine a sé stesso, ma il culmine di un ragionamento che vuole raggirare una morale dominante che per l’uomo spesso risulta mortifera e ingiusta. Raskòl’nikov uccide perché vuole dimostrare la potenza della razionalità sull’ordine prestabilito e risulta sconfitto non tanto perché pentito del delitto in sé per sé, ma perché non si è rivelato in grado di essere il superuomo che pensava di potere essere, non ne ha sostenuto il peso.

Mi riesce molto difficile, ma viene fatto spesso, incasellare un romanzo come Delitto e castigo nella chiave di lettura della sofferenza cristiana che porta alla salvezza; a mio parere il fascino più grande dei personaggi di Dostoevskij, quello che ti tiene davvero attaccato alla pagina, è che come nei grandi amori non corrisposti risultano inafferrabili. Nella loro complessità imprendibili. Dialogano con il lettore, lo rendono parte delle proprie riflessioni, delle proprie spaccature, ma non si lasciano mai intrappolare in una definizione, è impossibile tracciarne con chiarezza i limiti e questo è quello che ci fa innamorare di loro.

Come infarinatura generale direi che per questa volta può bastare.

IL PIATTO DEL LIBRO: questa volta ho deciso di puntare sul senso della vista, di giocare con l’uso del colore giallo che Dostoevskij fa nei suoi romanzi, che come detto poco sopra simboleggia la povertà, la malattia – soprattutto dei nervi – che coglie il protagonista e sembra riflettersi come in uno specchio anche nella città che lo circonda. Un tema che trova un parallelismo importante, sebbene probabilmente del tutto casuale, nell’uso del giallo che per esempio fa un pittore come Van Gogh, anche lui affetto da problemi di salute mentale. Così ho preso in rassegna tutti gli ingredienti gialli che mi venivano in mente e mi sono fermata sullo zafferano. E da buona milanese importata, ecco quindi per voi una semplice ricetta di un risotto plant-based allo zafferano.

INGREDIENTI PER 2-3 PERSONE:

  • 220 g riso carnaroli
  • 1 bustina di zafferano
  • burro vegetale q.b.
  • 1/2 cipolla per soffritto
  • 1/2 bicchiere vino bianco secco
  • 1 carota, 1 cipolla, 1 gambo di sedano per fare il brodo vegetale
  • lievito alimentare q.b.
  • funghi chiodini

Per prima cosa preparate il brodo vegetale mettendo sul fuoco in circa 800 ml di acqua le verdure tagliate a pezzi, portate a ebollizione e mantenete il brodo sulla fiamma bassa accesa per tutto il tempo della preparazione del risotto, è fondamentale che mantenga il calore.

In una padella fate tostare il riso a secco per due, tre minuti a fiamma viva finché non rilascerà il suo aroma, è importante per aprire i chicchi e fare in modo che assorbano meglio i liquidi. Togliete poi il riso e nella stessa padella fate appassire insieme a un mestolo di brodo una cipolla tagliata molto finemente (io la trito con il mini-pimmer) avendo cura che non si bruci.

Aggiungete poi il riso precedentemente tostato e lasciate insaporire, versate quindi il vino e fatelo evaporare mantenendo un fuoco vivace. Di seguito aggiungete due mestoli di brodo alla volta aspettando che si asciughi quasi totalmente prima di aggiungerne dell’altro. A circa dieci minuti dalla cottura aggiungete anche lo zafferano sciolto con un po’ di brodo caldo. A cottura del riso ultimata togliete dal fuoco e mantecate con una noce di burro vegetale e una spolverata di lievito alimentare. Potete mantenere una consistenza più o meno liquida lavorando sul brodo.

A guarnire ho aggiunto dei funghi chiodini fatti saltare in padella.

Buon autunno e buona lettura! Non dimenticatevi di leggere la citazione dal libro scelta per voi più sotto…

CITAZIONE DAL LIBRO:

« […] Più semplicemente alludevo al fatto che l’uomo “straordinario” ha il diritto… ovvero, non un diritto ufficiale, ma lui stesso è in possesso del diritto di permettere alla sua coscienza di superare… certi ostacoli, e unicamente nel caso che la realizzazione della sua idea (che alle volte può essere salvifica per l’intera umanità) lo esiga. Voi avete avuto la compiacenza di affermare che il mio articolo è poco chiaro; sono pronto a chiarirvelo, nella misura delle mie possibilità. Forse non sbaglio supponendo che voi vogliate proprio questo; ma prego… Secondo me, se le scoperte di Keplero e Newton, a seguito di certe macchinazioni, non avessero potuto in alcun modo diventare note alla gente se non con il sacrificio della vita di uno, dieci, cento e più uomini che ne avessero impedito la diffusione o che si fossero frapposti lungo il loro cammino in qualità di ostacoli, allora Newton avrebbe avuto il diritto, e sarebbe persino stato obbligato a… togliere di mezzo questi dieci o cento uomini per render note le sue scoperte all’intera umanità. Da ciò d’altronde non consegue che Newton avesse il diritto di ammazzare chi voleva, il primo venuto, o di rubare ogni giorno al mercato. Più avanti, se non ricordo male, nel mio articolo sviluppo l’idea che tutti… be’ per esempio mettiamo anche solo i legislatori e gli orientatori dell’umanità, a partire dagli antichi, continuando con i vari Licurgo, Solone, Maometto, Napoleone e così via, tutti fino all’ultimo erano dei delinquenti, anche per il solo fatto che, dando all’uomo una nuova legge, con questo hanno infranto la legge antica, santamente venerata dalla società e trasmessa dai padri, e, tuttavia, non si sono fermati davanti al sangue, se solo il sangue (alle volte del tutto innocente e versato con eroismo per l’antica legge) poteva esser loro d’aiuto. È persino sorprendente che una gran parte di questi benefattori e orientatori dell’umanità siano stati dei massacratori particolarmente terribili. In una parola, io dimostro che tutte le persone, non solo quelle grandi, ma quelle che appena appena escono dalla norma, cioè persino quelle appena in grado di dire qualcosa di nuovo, devono, per loro natura, essere dei delinquenti, in misura minora o maggiore, s’intende. In una parola, vedete che fino a questo punto non c’è niente di particolarmente nuovo. Per quel che riguarda la mia suddivisione delle persone in ordinarie e straordinarie, sono d’accordo che sia alquanto arbitraria, ma non insisto certo su un numero preciso. Io mi limito a credere nel mio pensiero fondamentale. Esso consiste precisamente nel fatto che la gente, per una legge di natura, si divide generalmente in due categorie: una inferiore (gli ordinari), ovvero, per così dire, il materiale utile unicamente alla procreazione di qualcosa di simile a se stesso, e un’altra che è quella degli uomini, ovvero di coloro in possesso del dono o del talento di dire la loro parola nuova nell’ambiente. A questo punto s’intende che le suddivisioni sono infinite, ma i tratti distintivi di entrambe le categorie sono abbastanza netti: la prima categoria, ovvero il materiale, parlando in termini generali consiste in persone per loro natura conservatrici, ammodo, che vivono nell’obbedienza e amano essere obbedienti. Secondo me sono persino costrette a essere obbedienti, perché tale è la loro destinazione, e in questo per loro non c’è assolutamente nulla di umiliante. Nella seconda categoria, invece, tutti violano la legge, sono dei distruttori, o sono inclini a esserlo, a seconda della capacità. S’intende che i delitti di queste persone sono relativi, e dei più vari; perlopiù essi esigono, nelle forme più svariate, la distruzione del presente in nome di qualcosa di migliore. […] D’altronde non c’è molto di cui preoccuparsi: la massa quasi mai riconosce loro questo diritto, perlopiù li giustizia e li impicca, e in tal modo adempie in modo assolutamente corretto al proprio destino conservatore, col che, tuttavia, nelle generazioni successive quella stessa massa perlopiù metterà i giustiziati su un piedistallo e si inchinerà loro. La prima categoria è sempre signora del presente, la seconda categoria è signora del futuro. I primi conservano il mondo e l’accrescono numericamente; i secondi muovono il mondo e lo conducono verso una meta. Tanto questi che quelli hanno esattamente lo stesso diritto di esistere. In una parola, per me tutti hanno un diritto equivalente, e vive la guerre éternelle, fino alla nuova Gerusalemme, s’intende!»