I miei stupidi intenti di Bernardo Zannoni

Una faina che racconta la storia della propria vita all’interno di un bosco popolato da animali che vivono all’apparenza una vita pressoché antropomorfizzata: le loro tane hanno cucine e camere da letto, ciascun membro della famiglia vanta un nome proprio e ci sono medici e usurai che ci parlano di istituzioni sociali ed economiche rudimentali.

Il protagonista, Archie, è una faina che diventa zoppa dopo avere tentato di rubare delle uova che si trovavano in cima a un alto albero: diventato inutile agli occhi della madre che non prova un minimo di affetto nei confronti del figlio decide di venderlo alla volpe Solomon in cambio di qualche gallina da mangiare. Solomon è un usuraio, grazie alla sua astuzia e a un cane da guardia, Gioele, che sta sempre al suo fianco e si occupa di andare a sistemare eventuali debiti insoluti, si è guadagnato il rispetto e la riverenza di tutti gli animali del bosco. Archie diventa il suo apprendista e dopo un inizio non facile tra i due, Solomon inizia a vedere in lui delle potenzialità e pian piano lo introduce alle sue passioni legate alla sfera dell’essere umano, che da sempre ha giocato un enorme fascino su Solomon. Presto capiamo infatti che la volpe non è un animale come tutti gli altri: ha coscienza del tempo, ha imparato a leggere e a scrivere e crede in Dio.

Il grande monolite intorno a cui gira l’intero romanzo è questa dicotomia tra uomini e animali. Da una parte c’è il regno della sopravvivenza a tutti i costi, dell’istinto, della ferinità; dall’altro quello della consapevolezza del nostro essere transeunti, destinati a condurre una vita breve e piena di dolore in cui le pene possono essere alleviate dalla fede in un Dio di cui in fondo non abbiamo le prove dell’esistenza oppure dal piacere di trasporre le nostre avventure tramite la scrittura e renderle in questo modo eterne.

Archie non sembra in fondo guadagnarci molto da tutto questo bagaglio di conoscenza che Solomon gli lascia in eredità: si configura sì come un essere speciale, ma pur sempre in precario equilibrio tra un mondo di sentimenti tutti umani e un istinto animale che lo porterebbe persino a mangiare i suoi figli per non morire di fame durante il rigido inverno. Resta infine solo, vecchio, orfano ormai di quella beata incoscienza animale sostituita dalla chiara consapevolezza che presto dovrà morire, il suo ultimo lascito al mondo è la scrittura delle sue memorie che lascerà in custodia al suo unico amico rimasto, un istrice che lo ha salvato da un pericoloso incendio, nella speranza che questo gesto renda significativa la sua breve permanenza su questa terra.

Qual è il messaggio ultimo che il romanzo ci vuole dare: forse che sia meglio restare protetti dall’ignoranza e non giungere mai al sapere? Che dovremmo rivedere e accettare con maggiore imperturbabilità certe “violenze” dell’esistenza perché si insinuano in fondo nel semplice cerchio naturale dal quale proveniamo? O al contrario rivalutare l’anelito dell’uomo di giungere al Vero che lo differenzia da qualsiasi altro animale? Resta al lettore decidere. Quel che è certo è che alcuni atteggiamenti umani rivisti in questa chiave animale non possono che farci riflettere, perché li vediamo attraverso una prospettiva inedita e a cui non siamo abituati. Una prospettiva narrativa sicuramente originale, ma non innovativa perché si tratta di un espediente già visto nel panorama letterario: si pensi al celebre racconto di Tolstoj Cholstomér in cui la voce narrante è quella di un cavallo. Si tratta di una pratica artistico-letteraria che i formalisti russi chiamavano straniamento: sottrarre la materia narrata alla convenzionalità della prospettiva canonica e presentarla invece sotto una nuova luce.

La grande ambizione di questo romanzo risulta in ultima analisi anche la sua zavorra: troppi grandi temi messi sul tavolo – Dio, il sapere, il potere taumaturgico della letteratura che rende eterni, la diade uomo-animale – che donano sì una sorta di epicità alla narrazione, ma senza trovare il giusto respiro. C’è qualcosa di potente nell’imperfezione di questo testo, che colpisce, tuttavia il coltello non affonda abbastanza e le riflessioni che scatenano scivolano spesso nell’ingenuità e nello stereotipo anche per via della assoluta aderenza alla tradizione con con la quale vengono raccontati. Un esordio narrativo i cui meriti vanno riconosciuti, ma che non mi ha fatto saltare in piedi dalla gioia. Mi riservo di leggere anche gli altri libri finalisti del Campiello vinto appunto da Zannoni con I miei stupidi intenti.

***

Vi lascio una ricetta semplicissima che profuma di bosco perché ha come protagonista i funghi. È la stagione giusta: cucinateli più che potete, tanto più che sono ricchi di triptofano che dà origine alla serotonina, neurotrasmettitore che regola l’umore, l’aggressività, il comportamento sessuale, la sensibilità al dolore, il ciclo sonno-veglia e favorisce la distensione e il rilassamento.

ORZO PERLATO CON FUNGHI SHIITAKE E TEMPEH GRIGLIATO

Ho pulito i funghi Shiitake eliminando il gambo (se li volete freschi io li ho trovati per esempio da Naturasì, secchi li trovate nei maggiori supermercati etnici come per esempio Kathay a Milano). Ho messo l’orzo a cuocere e nel frattempo ho tagliato i funghi a listarelle e li ho fatti cuocere in padella qualche minuto con un po’ di olio e aglio, ho lasciato che si asciugassero e ho aggiunto poi il tempeh sempre tagliato a listarelle (io ho preso ancora una volta da Naturasì quello già grigliato), ho condito con un goccio di salsa di soia e ho lasciato cuocere per altri 10 minuti. Dopo avere unito l’orzo cotto con i funghi e il tempeh, ho aggiunto anche della rucola fresca.

Atti di sottomissione

Ho appena finito di leggere Atti di sottomissione di Megan Nolan e ho concluso l’ultima pagina dominata da sentimenti contrastanti. Ho letto in giro molti paragoni tra questa autrice e Sally Rooney, entrambe cosiddette millenials, irlandesi, giovani ragazze che scrivono di altrettanto giovani tormentate con relazioni disfunzionali. Sì, in parte il contesto le accomuna, ma ho letto Persone normali nonostante non sia esattamente il tipo di letteratura che mi attiri normalmente e lì non c’è molto di quella spudorata onestà e asprezza che caratterizza invece il testo della Nolan. Ed è proprio nell’andatura così diretta che risiede secondo me il punto di forza di questo libro, differenziandolo e rendendolo a mio parare più interessante di Sally Rooney, anche se mi rendo conto che il confronto tra le due sia del tutto gratuito e non richiesto.

Atti di sottomissione è la storia di una ragazza nella prima metà dei suoi vent’anni che vive a Dublino dove incontra Ciaran, scrittore danese trapiantato in Irlanda per restare vicino al padre malato, durante una serata in una galleria d’arte. Quella che poteva essere una normale storia d’amore tra due giovani ragazzi si trasforma presto in una sorta di incubo amichevole a causa del temperamento di lui, anaffettivo e a tratti respingente, reso ancora più spigoloso dalla presenza ingombrante di una ex importante, Freya, e a causa del rapporto malsano di lei con il cibo, con l’alcol, con le proprie insicurezze che la conducono spesso in dinamiche di auto-umiliazione. Il rapporto tra i due vive della costante volontà di lei di sottomettersi a qualsiasi cosa possa compiacere Ciaran, si basa sull’auto-convincimento che isolati momenti di sincero affetto possano annullare mille altre parole pungenti o comportamenti sprezzanti. Eppure la relazione tra i due va avanti e si accomoda su gesti abituali e confortanti come l’andare a letto insieme ogni sera, cucinare una buona cena al rientro dal lavoro, fare delle passeggiate senza meta per Dublino e così via. Vanno avanti, ciascuno a suo modo anestetizzato dai comportamenti dell’altro, fino a che il passato, certe esagerazioni legate all’alcol o al sesso che erano state soppresse per non irritare Ciaran tornano prepotenti nella vita della protagonista compromettendo per sempre il rapporto con Ciaran, il cui epilogo non rientra certo nella categoria “lieto fine”.

Il fatto che non veniamo mai a conoscenza di quale sia il nome della narratrice è già significativo di per sé. Lei non ha un nome perché non ha un’identità e ciò su cui si basa l’intera narrazione è appunto il racconto di questa mancanza di fuoco, di questo tentativo disperato di aggrapparsi a qualsiasi cosa possa renderla più piacevole e accettabile agli occhi degli altri senza mai preoccuparsi di essere davvero in pace con sé stessa. Ha abbandonato gli studi e si guadagna da vivere come cameriera prima e come impiegata in uno studio dentistico poi, un lavoro facile, che semplicemente le permetta di vivere e di sostentare l’acquisto di vestiti carini e sbronze pazzesche con i suoi amici. Sembra genetica l’incapacità di stare sola, di bastare a sé stessa, in un passaggio dice “Quando stavo con gli altri mi sentivo vera; era questo il motivo per cui volevo essere innamorata”, e in particolare sessualità e identità vanno per lei di pari passo, come se solo nel gesto di darsi agli altri possa sentirsi davvero viva e non un corpo inutile che cammina di qua e di là in un appartamento vuoto aspettando le sette per aprire il vino. Ciaran si presenta a lei come un soggetto integro, bastante a sé stesso, ed è forse questo aspetto, al di là della sua straordinaria bellezza, che la affascina più di tutto. Ma la loro storia si rivela essere la parabola di ciò che può esserci di sbagliato in una relazione, niente di troppo evidente all’inizio, non mancano i momenti belli, di sincero godimento, ma è proprio nei dettagli che si annida la tossicità e infatti alla fine tutto esplode.

Atti di sottomissione è nella sua trama in fondo molto semplice, ma l’ho trovato interessante e degno di una lettura per due motivi in particolare. Il primo è perché non è così scontato trovare dei resoconti così brutalmente sinceri delle insicurezze e dei meccanismi di auto-sabotaggio che una persona può potenzialmente nascondere in sé e che questa narrazione in prima persona ci sbatte in faccia senza troppi complimenti; il secondo è che dalla narrazione della storia tra lei e Ciaran scaturiscono in fondo degli spunti di riflessioni non banali su quelle che sono le dinamiche del rapporto uomo-donna e sulla natura del desiderio femminile. Non banali perché contrariamente alla narrazione contemporanea che vuole (seppur giustamente) la donna forte e totalmente padrona delle sue relazioni, qui ci mostra qualcuno che questo potere non lo sa gestire per niente e diventa vittima degli uomini che incontra anche se nella sua visione si rende conto di essere totalmente partecipe e consapevole delle oscenità che commette. Una cosa che lascia il lettore, e soprattutto la lettrice femminile, abbastanza spiazzata.

Per lei non ci sarà altro soluzione e cura per il suo io scisso se non quella di scappare lontano, in Grecia, nell’ultimo disperato tentativo di venire a patti con sé stessa.

IL PIATTO DEL LIBRO: Atti di sottomissione è un libro che parla di esagerazione, di eccessi, tanto nella sfera sessuale che in quella legata al cibo. Nella mia testa l’ingrediente che più si associa a questa dimensione è il cioccolato. Splendida scappatoia dalle rigidità della vita, può essere consolatorio, eccitante, provocatorio. Avete voglia di perdervi nella lascivia di un tortino al cioccolato con cuore caldo e fondente? Allora preparatevi ad affondare il cucchiaio. C’è anche l’ingrediente a sorpresa!

INGREDIENTI per 3/4 TORTINI:

  • 65 g di farina bio 00
  • 30 g g di cacao amaro
  • 100 g di cioccolato fondente
  • 1 bicchiere di latte di soia
  • 50 ml di olio di semi di girasole o olio di cocco
  • 2 cucchiaini di lievito per dolce vanigliato
  • 70 g di zucchero di canna
  • un pizzico di sale
  • 1 cucchiaino di pepe di cayenna (se lo volete proprio pungente, se siete meno pazzi di me diminuite le dosi, per esempio solo mezzo o 1/4 di cucchiaino, comunque se avete il mal di gola o la tosse vi passa tutto!)
  • zucchero a velo q.b.
  1. Sciogliere il cioccolato a bagnomaria con il pepe di cayenna e farlo raffreddare.
  2. Preriscaldare il forno a 200°, modalità statica.
  3. Unire tutti gli ingredienti secchi in una ciotola, ossia la farina, il cacao, lo zucchero, il sale e il lievito.
  4. A filo unire anche gli ingredienti liquidi, olio e latte, fino ad ottenere un composto fluido ma non troppo acquoso.
  5. Per ultimo aggiungere il cioccolato fuso incorporandolo al resto dell’impasto.
  6. Ungere dei pirottini di alluminio, spolverarli con il cacao e riempirli per poco più di metà della loro capienza.
  7. Infornare a 220° per 10/12 minuti (rispettare il tempo di cottura è fondamentale per ottenere l’effetto desiderato di cuore fondente).
  8. Una volta pronti, capovolgere e cospargere con un sottile velo di zucchero a velo.

CITAZIONE DAL LIBRO:

Quello è il momento in cui sarebbe dovuta finire. Adesso mi sembra folle che sia andata avanti, ma ero ancora convinta di amarlo e che tradirlo fosse un sintomo della mia innata slealtà. Non meritavo amore ma ne avevo bisogno. L’idea di dirglielo andava semplicemente oltre la mia immaginazione. L’idea di troncare la nostra vita domestica, le attenzioni quotidiane; l’idea di dovermi svegliare la mattina senza di lui. Non riuscivo a visualizzarlo. La mia non era solo paura, ero sinceramente incapace di concepire un mondo in cui accadevano queste cose. Soffrivo moltissimo, le bugie e le omissioni, i sorrisi, gli orgasmi che dovevo fingere. Ma non era la prima volta. Sapevo che sarebbe passata. Una persona può abituarsi a tutto.

Dostoevskij, lo scrittore del giallo

Ci sono due pregiudizi in particolare che vorrei estirpare dalla testa delle persone. Il primo è che i broccoletti non siano anche buonissimi oltre che sani, il secondo è che la letteratura russia sia un noioso mattone. Niente di più falso. Nel tentativo di spiegarvi perché, ho ripreso in mano uno dei suoi più grandi classici, Delitto e castigo.

Questo anche perché vorrei restituire un connubio tra letteratura e cucina che non sia necessariamente legato solo alla nazionalità dell’autore o all’ambientazione del libro. È possibile infatti ritrovare, soprattutto nella grande letteratura, un incredibile gioco dei sensi che va a supportare e innalzare il semplice impianto narrativo. Dostoevskij in particolare è famoso per certe ambientazioni che ha saputo creare nei suoi romanzi in cui si percepisce un senso di claustrofobia o asfissia che spesso risulta uno specchio di ciò che accade nella mente dei suoi protagonisti. Delitto e castigo stesso ha un incipit che immediatamente vuole afferrare il lettore e immergerlo nell’atmosfera del romanzo: “All’inizio di un luglio straordinariamente caldo”. Ci dimentichiamo subito della Russia dei grandi freddi per iniziare a provare quel senso di soffocamento dato da un’eccessiva umidità o afosità estiva, che ti obnubila la mente e mette in allerta il sistema nervoso. Questo è il quadro in cui viaggeremo, almeno nella prima parte (e diciamocelo, quella più interessante) del romanzo e Dostoevskij lo mette bene in chiaro fin da subito. “Per strada c’era una caldo soffocante, afoso, e c’era gente dappertutto, dovunque c’era calce, legno, mattoni, polvere, e quel particolare lezzo estivo, così familiare a tutti gli abitanti di Pietroburgo che non abbiano la possibilità di affittarsi una dacia: tutto ciò improvvisamente scosse i nervi del giovane che erano già piuttosto tesi.”

Dostoevskij è poi lo scrittore del giallo non tanto perché, soprattutto in Delitto e castigo, mette in scena un omicidio, ma perché Pietroburgo, la città dove sono ambientati tanti dei suoi romanzi compreso gran parte di questo, è lo scenario perfetto per la follia dei suoi protagonisti. Non è la Pietroburgo dagli scenari grandiosi, ma una Pietroburgo fatta di piccoli vicoli, di mansarde, di povera gente che ogni giorno fa i conti con la vita, è una città colorata di giallo, il colore predominante di ogni sua descrizione, il coloro della malattia, della carta da parati giallognola e polverosa che si stacca dalle pareti dello stanzino in cui sta in affitto il giovane Raskòl’nikov.

La storia ormai la conoscete tutti. Rodiòn Romànovič Raskòl’nikov, ex studente di legge costretto ad abbandonare gli studi per problemi economici, spinto dall’indigenza e da un livore generale verso la società che lo circonda decide di uccidere una vecchia usuraia di sua conoscenza, nella convinzione che certe persone straordinarie abbiano il diritto di andare al di là della morale impunite, ossia commettere atti volti a delinquere purché vi sia un fine superiore a giustificarli, questo secondo Rodja divide gli uomini ordinari dal superuomo di stampo nietzschiano. Salvo poi, una volta commesso il delitto, duplice perché ne risulta vittima anche la sorella dell’usuraia, essere divorato dalla paranoia e dalla desolazione psicologica che quest’azione scatenano nel giovane, salvato poi solo dall’incontro con Sonja, un’anima pura e caritatevole, costretta a prostituirsi per mantenere la famiglia, che lo condurrà nell’epilogo sulla via del pentimento e della salvezza.

Ma perché ancora oggi, a più di 150 anni dalla sua pubblicazione, rimane un libro da leggere? Ci sono diversi motivi. Uno di questi è che Dostoevskij fu uno dei primi scrittori a restituire una descrizione della psiche umana e dei suoi meccanismi tanto straordinariamente accurata da risultare quasi fastidiosa e difficilmente altri dopo di lui riuscirono a farlo altrettanto bene. Leggendo non possiamo fare a meno di immedesimarci nei ragionamenti del protagonista e condividerne manie e tormenti. Dostoevskij fu il primo scrittore a essere in grado di mettere in scena uno dei tratti fondamentali che caratterizza l’uomo, la scissione dell’io, e ciò che lo rende un classico è il fatto che i temi da lui trattati non siano invecchiati, che la nevrosi degli uomini del sottosuolo dostoevskiani sia la medesima che colpisce l’uomo moderno. Il nome stesso del protagonista, Raskòl’nikov, deriva dal verbo russo раскалывать che significa spaccare, scindere. Il disprezzo e la frustrazione verso la propria condizione misera che lo portano ad avere sentimenti contrastanti nei confronti della società, a metterne in discussione lo status quo, a ridisegnarne le regole sono assolutamente contemporanei. Raskòl’nikov è un uomo in cui, come in ciascuno di noi, convivono sentimenti contrastanti, a volte estremi: la freddezza dell’omicidio derivata dalla riflessione e un’isteria quasi paralizzante, il cinismo e il pentimento, la rabbia e un sentimentalismo pervasivo. L’atto criminale da lui commesso non è fine a sé stesso, ma il culmine di un ragionamento che vuole raggirare una morale dominante che per l’uomo spesso risulta mortifera e ingiusta. Raskòl’nikov uccide perché vuole dimostrare la potenza della razionalità sull’ordine prestabilito e risulta sconfitto non tanto perché pentito del delitto in sé per sé, ma perché non si è rivelato in grado di essere il superuomo che pensava di potere essere, non ne ha sostenuto il peso.

Mi riesce molto difficile, ma viene fatto spesso, incasellare un romanzo come Delitto e castigo nella chiave di lettura della sofferenza cristiana che porta alla salvezza; a mio parere il fascino più grande dei personaggi di Dostoevskij, quello che ti tiene davvero attaccato alla pagina, è che come nei grandi amori non corrisposti risultano inafferrabili. Nella loro complessità imprendibili. Dialogano con il lettore, lo rendono parte delle proprie riflessioni, delle proprie spaccature, ma non si lasciano mai intrappolare in una definizione, è impossibile tracciarne con chiarezza i limiti e questo è quello che ci fa innamorare di loro.

Come infarinatura generale direi che per questa volta può bastare.

IL PIATTO DEL LIBRO: questa volta ho deciso di puntare sul senso della vista, di giocare con l’uso del colore giallo che Dostoevskij fa nei suoi romanzi, che come detto poco sopra simboleggia la povertà, la malattia – soprattutto dei nervi – che coglie il protagonista e sembra riflettersi come in uno specchio anche nella città che lo circonda. Un tema che trova un parallelismo importante, sebbene probabilmente del tutto casuale, nell’uso del giallo che per esempio fa un pittore come Van Gogh, anche lui affetto da problemi di salute mentale. Così ho preso in rassegna tutti gli ingredienti gialli che mi venivano in mente e mi sono fermata sullo zafferano. E da buona milanese importata, ecco quindi per voi una semplice ricetta di un risotto plant-based allo zafferano.

INGREDIENTI PER 2-3 PERSONE:

  • 220 g riso carnaroli
  • 1 bustina di zafferano
  • burro vegetale q.b.
  • 1/2 cipolla per soffritto
  • 1/2 bicchiere vino bianco secco
  • 1 carota, 1 cipolla, 1 gambo di sedano per fare il brodo vegetale
  • lievito alimentare q.b.
  • funghi chiodini

Per prima cosa preparate il brodo vegetale mettendo sul fuoco in circa 800 ml di acqua le verdure tagliate a pezzi, portate a ebollizione e mantenete il brodo sulla fiamma bassa accesa per tutto il tempo della preparazione del risotto, è fondamentale che mantenga il calore.

In una padella fate tostare il riso a secco per due, tre minuti a fiamma viva finché non rilascerà il suo aroma, è importante per aprire i chicchi e fare in modo che assorbano meglio i liquidi. Togliete poi il riso e nella stessa padella fate appassire insieme a un mestolo di brodo una cipolla tagliata molto finemente (io la trito con il mini-pimmer) avendo cura che non si bruci.

Aggiungete poi il riso precedentemente tostato e lasciate insaporire, versate quindi il vino e fatelo evaporare mantenendo un fuoco vivace. Di seguito aggiungete due mestoli di brodo alla volta aspettando che si asciughi quasi totalmente prima di aggiungerne dell’altro. A circa dieci minuti dalla cottura aggiungete anche lo zafferano sciolto con un po’ di brodo caldo. A cottura del riso ultimata togliete dal fuoco e mantecate con una noce di burro vegetale e una spolverata di lievito alimentare. Potete mantenere una consistenza più o meno liquida lavorando sul brodo.

A guarnire ho aggiunto dei funghi chiodini fatti saltare in padella.

Buon autunno e buona lettura! Non dimenticatevi di leggere la citazione dal libro scelta per voi più sotto…

CITAZIONE DAL LIBRO:

« […] Più semplicemente alludevo al fatto che l’uomo “straordinario” ha il diritto… ovvero, non un diritto ufficiale, ma lui stesso è in possesso del diritto di permettere alla sua coscienza di superare… certi ostacoli, e unicamente nel caso che la realizzazione della sua idea (che alle volte può essere salvifica per l’intera umanità) lo esiga. Voi avete avuto la compiacenza di affermare che il mio articolo è poco chiaro; sono pronto a chiarirvelo, nella misura delle mie possibilità. Forse non sbaglio supponendo che voi vogliate proprio questo; ma prego… Secondo me, se le scoperte di Keplero e Newton, a seguito di certe macchinazioni, non avessero potuto in alcun modo diventare note alla gente se non con il sacrificio della vita di uno, dieci, cento e più uomini che ne avessero impedito la diffusione o che si fossero frapposti lungo il loro cammino in qualità di ostacoli, allora Newton avrebbe avuto il diritto, e sarebbe persino stato obbligato a… togliere di mezzo questi dieci o cento uomini per render note le sue scoperte all’intera umanità. Da ciò d’altronde non consegue che Newton avesse il diritto di ammazzare chi voleva, il primo venuto, o di rubare ogni giorno al mercato. Più avanti, se non ricordo male, nel mio articolo sviluppo l’idea che tutti… be’ per esempio mettiamo anche solo i legislatori e gli orientatori dell’umanità, a partire dagli antichi, continuando con i vari Licurgo, Solone, Maometto, Napoleone e così via, tutti fino all’ultimo erano dei delinquenti, anche per il solo fatto che, dando all’uomo una nuova legge, con questo hanno infranto la legge antica, santamente venerata dalla società e trasmessa dai padri, e, tuttavia, non si sono fermati davanti al sangue, se solo il sangue (alle volte del tutto innocente e versato con eroismo per l’antica legge) poteva esser loro d’aiuto. È persino sorprendente che una gran parte di questi benefattori e orientatori dell’umanità siano stati dei massacratori particolarmente terribili. In una parola, io dimostro che tutte le persone, non solo quelle grandi, ma quelle che appena appena escono dalla norma, cioè persino quelle appena in grado di dire qualcosa di nuovo, devono, per loro natura, essere dei delinquenti, in misura minora o maggiore, s’intende. In una parola, vedete che fino a questo punto non c’è niente di particolarmente nuovo. Per quel che riguarda la mia suddivisione delle persone in ordinarie e straordinarie, sono d’accordo che sia alquanto arbitraria, ma non insisto certo su un numero preciso. Io mi limito a credere nel mio pensiero fondamentale. Esso consiste precisamente nel fatto che la gente, per una legge di natura, si divide generalmente in due categorie: una inferiore (gli ordinari), ovvero, per così dire, il materiale utile unicamente alla procreazione di qualcosa di simile a se stesso, e un’altra che è quella degli uomini, ovvero di coloro in possesso del dono o del talento di dire la loro parola nuova nell’ambiente. A questo punto s’intende che le suddivisioni sono infinite, ma i tratti distintivi di entrambe le categorie sono abbastanza netti: la prima categoria, ovvero il materiale, parlando in termini generali consiste in persone per loro natura conservatrici, ammodo, che vivono nell’obbedienza e amano essere obbedienti. Secondo me sono persino costrette a essere obbedienti, perché tale è la loro destinazione, e in questo per loro non c’è assolutamente nulla di umiliante. Nella seconda categoria, invece, tutti violano la legge, sono dei distruttori, o sono inclini a esserlo, a seconda della capacità. S’intende che i delitti di queste persone sono relativi, e dei più vari; perlopiù essi esigono, nelle forme più svariate, la distruzione del presente in nome di qualcosa di migliore. […] D’altronde non c’è molto di cui preoccuparsi: la massa quasi mai riconosce loro questo diritto, perlopiù li giustizia e li impicca, e in tal modo adempie in modo assolutamente corretto al proprio destino conservatore, col che, tuttavia, nelle generazioni successive quella stessa massa perlopiù metterà i giustiziati su un piedistallo e si inchinerà loro. La prima categoria è sempre signora del presente, la seconda categoria è signora del futuro. I primi conservano il mondo e l’accrescono numericamente; i secondi muovono il mondo e lo conducono verso una meta. Tanto questi che quelli hanno esattamente lo stesso diritto di esistere. In una parola, per me tutti hanno un diritto equivalente, e vive la guerre éternelle, fino alla nuova Gerusalemme, s’intende!»

Cena tra amici con Bolaño

Leggi I detective selvaggi e se sei come me uno che lavora a tempo pieno (anzi pienissimo), alla lettura non è che puoi dedicare più di un tot di ore al giorno. I detective selvaggi sono 688 pagine, quindi leggerlo quando si ha un po’ di tempo significa portarsi appresso il malloppo per un bel po’ di giorni, dentro e fuori le borse, dentro e fuori i mezzi pubblici, sulle panchine sporche nella pausa pranzo, alla luce tenue di una lampada quando rubi un po’ di ore al sonno, e alla fine sembra che il momento della giornata in cui ti riconnetti con Ulises Lima, Arturo Belano e tutti gli altri realvisceralisti sia l’unico che davvero aspettavi. Poi lo finisci e ti chiedi con un po’ di stupore: ma cosa ho appena letto?

Il mio maestro di storia del teatro russo diceva sempre che bisognava leggere Anna Karenina a diverse età della propria vita perché è un romanzo complesso che particolarmente si presta a regalarti diverse e nuove visioni a seconda del tuo grado di maturazione e I detective selvaggi mi ha restituito una sensazione simile, nel senso che prendendolo in mano una decina di anni fa ci avrei letto sicuramente delle cose che adesso ho letto diversamente. Probabilmente capita per quasi tutti i libri, ma alcuni si prestano più di altri.

I detective selvaggi è il libro dei vent’anni, della vita bohemiene e di quello che succede dopo, è l’epopea di un gruppo di poeti messicani guidati dai due che ho citato sopra che stanno tentando di imporre una nuova corrente d’avanguardia, il realvisceralismo, a Città del Messico. Si incontrano, si portano sempre appresso libri, fanno sesso, bevono molto, vanno ai convegni di poesia, parlano fino a notte fonda e girano per le strade di questo DF, una città che nelle sue descrizioni unisce l’etereo e il brutale, la fogna e l’altitudine. I detective selvaggi è il racconto della sconfitta di una generazione di ragazzi che pensava di cambiare il mondo mettendo insieme le parole in maniera diversa e invece si ritrova semplicemente impelagata nei soliti problemi del diventare adulti e sopraffatta dalla politica, un mosaico di umanità. Un testo torrenziale, sfuggente, che si manifesta con la potenza di un incubo o di un sogno, come gran parte della letteratura sudamericana che mi è capitato di leggere finora.

Il romanzo è articolato in tre sezioni principali: nella prima ambientata negli ultimi mesi del 1975 seguiamo le vicende dei realvisceralisti narrate in prima persona da Juan García Madero, un ragazzo iscritto a giurisprudenza che viene però facilmente distratto dai suoi doveri nel momento in cui entra a far parte della cerchia di questi poeti; la seconda, la più sostanziosa, prende un arco temporale molto ampio che dal ’75 si estende fino alla seconda meta degli anni ’90, qui le esperienze vissute da Lima e Belano, protagonisti prismatici del romanzo, si moltiplicano nel racconto di tanti altri personaggi che in qualche modo sono venuti a contatto con loro portando alla luce nuovi episodi delle loro esperienze erranti; la terza e ultima riprende da dove era terminata la prima, l’ultimo giorno del 1975, per portarci nei deserti del Sonora, dove Lima, Belano e García Madero sono fuggiti con Lupe per scappare da una banda di criminali e soprattutto per recuperare le tracce di Cesárea Tinajero, quella che sembra essere la madre della poesia realvisceralista.

Leggendo si ha la sensazione che un sottile filo di follia tenga insieme una pagina con l’altra, si ha l’idea di avere tra le mani un romanzo in cui lentamente tutto va in malora, Lima e Belano ne vengono fuori come due personaggi straordinari e straordinariamente inconcludenti, vittime delle loro visioni profetiche. Ma nonostante questo effetto di disintegrazione inarrestabile, il gioco che sottende il testo e il piacere dell’audacia formale di Bolaño rendono la lettura estremamente piacevole in ogni momento.

Il tessuto intertestuale è molto ricco, le cose che più saltano all’occhio sono i riferimenti all’Ulisse di Joyce e all’Odissea di Omero nel nome di Ulises Lima e nel peregrinare infinito dei due protagonisti. I detective selvaggi è in effetti il libro che ti fa perdere, che a un certo punto ti spinge fino a dei villaggi africani devastati dalla guerra dove il punto è spingersi oltre il significato di qualsiasi esperienza perché forse il problema è che quel significato non c’è. È il libro dei deserti del Sonora dove vibra una spiritualità tutta diversa, dove la vita diventa più metafisica ed è il libro delle immense notti del DF, dove non sono mai stata, e ora non vedo l’ora di andarci.

Se mi chiedessero perché leggerlo, risponderei: perché alla fine ti apre una finestra.

IL PIATTO DEL LIBRO: per questo libro, oltre che volare in Messico con i sapori, volevo fare qualcosa che si prestasse a essere consumato in una cena tra amici perché è qualcosa che ben si adatta all’atmosfera del romanzo. Ho pensato a un piatto di enchiladas preparate con un ripieno di fagioli neri e una gustosa salsina di anacardi in sostituzione del formaggio fuso.

INGREDIENTI per 2-3 persone:

  • 150 g di fagioli neri (io ho usato quelli secchi, messi in ammollo la sera prima e poi cotti con la pentola a pressione per 30 minuti)
  • 100 g di riso rosso cotto
  • 2 patate dolci medio-piccole, tagliate in piccoli pezzi
  • 1 peperone, tagliato a cubetti
  • 1 cipolla piccola, tagliata sottile
  • 1 spicchio d’aglio, tritato
  • 7 tortillas (io le ho usate con farina integrale)
  • salsa chilli
  • 2 cucchiai olio evo
  • pepe fresco macinato
  • erba cipollina / prezzemolo fresco tritato
  • 1 avocado tagliato a pezzetti per il topping
  • formaggio vegetale agli anacardi (per quello ricetta a parte)

MEAL PREP:

Armatevi di un po’ di pazienza perché è un piatto molto semplice, ma che richiede un po’ di tempo, soprattutto se non avete preparato nulla in anticipo. Quindi per ottimizzare i tempi, potete iniziare a cuocere i fagioli e il riso anche il giorno prima, oppure usare i legumi in scatola. Stessa cosa anche per il “formaggio” di anacardi. In questo modo non vi resterà che tagliare e cuocere le verdure e poi assemblare tutti gli ingredienti per creare le enchiladas. Se usate la pentola a pressione per cuocere i fagioli, 30 minuti dal fischio e sono pronti, potete aggiungere l’alga kombu in cottura che aiuta nel rendere i legumi più facilmente digeribili (soprattutto per chi non è tanto abituato a mangiarli). Per quanto riguarda la salsa, potete trovare tante ricette per farla in casa, che è sicuramente la scelta migliore, ma non avendo tanto tempo io l’ho comprata già pronta da Kathay a Milano (potete vedere nelle foto sotto quella da me usata).

  1. Mettete le patate dolci tagliate a pezzetti in una padella grande, a fuoco medio, con due cucchiai di olio. Condite con una generosa manciata di sale e pepe.
  2. Cuocete per circa 5 minuti e aggiungete l’aglio tritato.
  3. Aggiungete il peperone tagliato a strisce sottili, la cipolla, i fagioli e mescolate.
  4. Cuocete ancora per qualche minuto, magari con coperchio, finché le patate saranno belle tenere.
  5. Aggiungete anche il riso e un paio di cucchiai di salsa, mescolate per amalgamare bene il tutto e togliete dal fuoco.
  6. Preriscaldate il forno a 180°.
  7. Ricoprite con uno strato di salsa il fondo di una pirofila.
  8. Mettete un paio di cucchiaiate di ripieno sul bordo di una tortilla e aggiungete anche un po’ di formaggio vegetale.
  9. Richiudete la tortilla e riponetela con i bordi verso il basso all’interno della pirofila. Ripetete l’operazione fino a riempimento.
  10. Ricoprite le tortillas con la salsa rimanente e aggiungete anche il formaggio vegetale che rimane.
  11. Infornare e cuocere per 20 minuti a 180°.
  12. Per finire, aggiungere l’erba cipollina o il prezzemolo o il coriandolo a seconda delle vostre preferenze e l’avocado a pezzi.

Nota: per preparare il formaggio vegetale agli anacardi, ho preso 125 g di anacardi al naturale e li ho ricoperti per almeno 10 minuti con acqua bollente (questo è il metodo veloce, altrimenti dovresti lasciarli in ammollo per una notte intera), li ho scolati e li ho messi in un frullatore insieme al succo di mezzo limone, 60 g di acqua, sale, paprika affumicata ed erba cipollina fino ad ottenere una crema omogenea.

CITAZIONE DAL LIBRO:

Belano, gli dissi, il nocciolo della questione è sapere se il male (o il delitto o il crimine o come vuole chiamarlo) è casuale o causale. Se è causale possiamo lottare contro di lui, è difficile da sconfiggere ma c’è una possibilità, più o meno come fra due pugili dello stesso peso. Se è casuale, al contrario, siamo fregati. Che Dio, se esiste, abbia pietà di noi. È a questo che si riduce tutto.

Nella direzione opposta

Thomas Bernhard è uno dei più grandi scrittori europei del Novecento. Si è scavato il suo spazio nel panorama letterario creando uno stile unico e micidiale. Lessi per primo Il soccombente, mi bastarono poche righe per rimanere folgorata e da lì in poi divenne uno dei miei rifugi di intelligenza preferiti, uno dei ripari sicuri a cui tornare nei momenti di tempesta. E laddove si potrebbe leggere una letteratura pessimista, esageratamente negativa e polemica, io ci ho sempre visto la massima lucidità, lo sforzo della razionalità che scala le insensatezze dell’esistenza e con difficoltà arriva in cima per godere di un panorama che regala una visione a 360°.

Come dissi già una volta, si potrebbe dire, con qualche margine di generalizzazione, che Bernhard nella sua vita abbia scritto un solo lungo libro: la sua penna è immediatamente riconoscibile grazie a uno stile in cui il come è perfettamente a servizio del cosa – anche se a suo dire il come lo interessò sempre più del cosa – e in effetti le tematiche che troviamo nei suoi romanzi sono ricorrenti. Ne cito alcune: l’ottusità delle convenzioni sociali, le difficoltà della vita familiare, pensieri sulla morte, la malattia e il suicidio, raccontate per lo più tramite monologhi, flussi di pensiero ininterrotti in cui il pensiero si dirama, si flette, salta ostacoli, ripiega su se stesso, si scontra con l’ossessione della ripetitività, dell’esagerazione per poi lanciarsi a momenti in libere corse. Tutti concetti che, a dire la verità, ne nascondono solo uno e fondamentale: la vita come teatro.

Ultimamente ho letto La cantina, romanzo abbastanza breve che fa parte dei cinque che insieme a L’origine – un accennoIl respiro – una decisioneIl freddo – una segregazione e per ultimo Un bambino compongono la sua autobiografia. Ne La cantina in particolare parla di un momento decisivo nella sua adolescenza quando scelse di abbandonare il ginnasio per andare nella direzione opposta. Direzione opposta in tutti i sensi, metaforicamente e letteralmente, lasciando quindi il ginnasio in uno dei quartieri più posh di Salisburgo per andare a fare l’apprendista in una cantina di alimentari nella parte più malfamata e degradata della città, decisione che significò per lui la sopravvivenza, la migliore che potesse prendere.

Ragioni per cui dovreste leggere questo libro:

  • se volete essere storditi (positivamente, si capisce);
  • se in un libro vi interessa più la fattura della trama;
  • se ritenete che la consapevolezza nella vita sia un bene prezioso e non un mostro da cui scappare;
  • se siete a un punto di svolta nella vostra vita e avete bisogno di andare nella direzione opposta;
  • se volete ridere, perché l’arte dell’esagerazione ha in sé il germe del comico;
  • se vi fanno passare per misantropi, ma poi si sa che non è questo il punto;
  • se odiate gli austriaci (no scherzo, questo non prendetelo davvero in considerazione).

IL PIATTO DEL LIBRO: A proposito, si sa che Bernhard molto spesso nei suoi libri non la tocca leggera con l’Austria, il suo paese, agli austriaci gliene ha dette di tutti i colori, quindi mi sembra giusto proseguire sulla sua linea, spingere le cose fino all’estremo e creare per questo secondo appuntamento di settembre proprio un piatto tipicamente austriaco (viennese) per il nostro Bernhard: la cotoletta, ma nella direzione opposta: vegana! La versione che vi propongo qui è mutuata da diverse cose trovate sul web, ma rifatta con il mix di ingredienti che ho trovato più di mio gusto. Potete accompagnarla con il contorno che volete, ma io sono andata proprio sul classico.

INGREDIENTI per 4 persone:

  • 150 g farina di ceci
  • 100 ml acqua temperatura ambiente
  • 1 cucchiaino di sale
  • 1 pizzico di paprika affumicata
  • 1 cucchiaio fecola di patate
  • 1 cucchiaio di olio evo
  • 1 cucchiaino di senape
  • farina di mais q.b. per impanare alla fine
  • limone e prezzemolo per guarnire
  • burro vegetale q.b.

PROCEDIMENTO:

Unite in una ciotola tutti gli ingredienti tenendo per ultimi olio e acqua, mescolate fino a ottenere una pastella morbida ma abbastanza compatta e lasciate riposare per almeno mezz’ora/un’ora.

Versate il pangrattato in una ciotola, prelevate un cucchiaio generoso di pastella e passatela nel pangrattato schiacciandola poi con le mani per darle la forma di una cotoletta.

Nella versione originale, la Wiener schnitzel viene fatta cuocere nel butterschmalz (burro chiarificato), quindi anziché usare l’olio, ho fatto sciogliere in una padella antiaderente una noce di burro vegetale e fatto cuocere le cotolette 2 minuti circa per lato fino a doratura, prestate attenzione che non si brucino.

Servitele con un po’ di limone spremuto (questo aiuterà anche l’assorbimento del ferro) e del prezzemolo sminuzzato, più il contorno che preferite.

CITAZIONE DAL LIBRO:

Noi ci domandiamo spesso che cosa sia e dove stia la felicità, perché questo è il solo interrogativo che ci appassiona sempre e per tutta la vita, senza mai darci tregua. Ma a questo interrogativo non dobbiamo dare risposta se siamo saggi e non vogliamo sporcarci con la nostra sporcizia più di quanto ci siamo già sporcati. Io cercavo il cambiamento, l’ignoto, forse anche l’eccitante e l’inquietante, e tutto ciò l’ho trovato nel quartiere di Scherzhauserfeld. Non sono entrato con compassione nel quartiere di Scherzhauserfeld, ho sempre odiato la compassione e, più profondamente che mai, l’autocompassione. Non mi sono mai permesso di avere compassione e ho agito solo per motivi di sopravvivenza. Già sul punto di mettere fine alla mia vita per tutti i motivi, ho avuto l’idea di interrompere la strada che stavo percorrendo già da molti anni con morbosa ottusità e mancanza di fantasia e sulla quale mi avevano messo con la loro tetra ambizione i miei educatori, e allora ho fatto dietrofront e sono tornato indietro di corsa per la Reichenhaller Strasse, in un primo momento sono tornato soltanto indietro, senza sapere dove stessi andando mentre tornavo indietro. Da questo momento in poi mi occorre qualcosa di completamente diverso, ho pensato, non ho pensato altro in quell’agitazione, qualcosa di completamente opposto rispetto a quanto fatto finora […] Qui non c’erano professori di matematica, né professori di latino, né professori di greco, e non c’era neppure un direttore dispotico al cui solo apparire mi sentissi inevitabilmente mozzare il respiro, qui non c’era nessuna istituzione micidiale. Qui non c’era la continua necessità di controllarsi, di chinare il capo, di fingere e di mentire pur di sopravvivere. Qui tutto quello che ero non veniva continuamente esposto agli sguardi critici, già di per sé micidiali, e non si pretendevano continuamente da me cose inaudite, disumane, o meglio la disumanità stessa. Qui non ero ridotto a una macchina per imparare e per pensare, qui potevo essere me stesso.

In un certo sono un burger vegano

Quando mi è venuta l’idea di unire cucina vegana e letteratura, stavo leggendo La fine della strada di John Barth e quindi non mi viene in mente un libro migliore da cui partire.

La fine della strada (pubblicato originariamente nel 1958) è uno dei suoi primissimi romanzi, improntato sul tipico realismo americano ma con un twist totalmente barthiano che già ci fa intuire quale sarà il suo stile di scrittura futuro, più barocco e sperimentale: non per nulla viene considerato uno dei padri della letteratura post-moderna, David Foster Wallace stesso scrisse un testo, Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso, costruito su alcuni personaggi di Lost in the Funhouse, che è una delle opere più famose di Barth.

Il romanzo parla di un triangolo amoroso davvero sui generis in cui un modesto docente delle superiori, Jacob Horner, in cura presso un dottore specializzato nel trattamento di paraplegici (anche se la paraplegia del protagonista non ha niente a che vedere con il fisico), appena trasferitosi in una nuova cittadina, Wicomico, dove ha preso incarico proprio su consiglio del suo Dottore, si trova a fare amicizia con una coppia del posto, i Morgan, sviluppando delle dinamiche che porteranno alla rovina di tutti e tre i personaggi.

L’incipit è già di per sé una dichiarazione di poetica: “In un certo senso io sono Jacob Horner“. Tutto il testo è infatti costruito intorno al tema della scelta e a come le scelte o non-scelte che noi facciamo contribuiscano a costruire la nostra identità, sebbene questo si riveli molto spesso un gioco dettato dal caso (si vedano le curiose terapie prescritte dal Dottore) o dalla necessità e quindi non davvero una scelta per definizione; mentre in alcuni casi aderire troppo a delle (auto)imposizioni dettate dalla razionalità porti comunque a un impasse in cui anche la ragione stessa mostra le sue mancanze. In effetti, tutto il vero, tragico realismo del romanzo è concentrato negli ultimissimi capitoli dove si sfogano tutte le tensioni e i giochi psicologici sviluppatesi nei capitoli precedenti, che hanno invece un tono decisamente più scanzonato e divertente (su alcune pagine si ride proprio di gusto). Inoltre, sebbene il romanzo si preoccupi di mantenere vivo un senso di verosimiglianza, è denso di riferimenti metanarrativi: riflessioni sulla scrittura e su come la scrittura manipoli e in un certo senso tradisca la realtà.

IL PIATTO DEL LIBRO: Parlando di America anni ’50 in una sperduta cittadina di provincia, parlando di sperimentalismo e, perché no, parlando di questioni legate all’identità, a questo libro assocerei senz’altro un bel burger vegano. Io l’ho fatto con la barbabietola e le lenticchie, è incredibile perché la consistenza del composto che si ottiene è simile al macinato della carne e anche il colore e l’aroma dato dalle spezie utilizzate aiuta ad alimentare quest’illusione.

INGREDIENTI per 3 burger:

  • 1 barbabietola rossa grande, cruda
  • 2-3 cucchiai di olio evo
  • 1 cucchiaino di paprika affumicata
  • 1/2 cucchiaino di cumino macinato
  • 25 g di noci sgusciate
  • 85 g lenticchie cotte (io ho usato quelle in scatola per abbreviare i tempi)
  • prezzemolo tritato con aglio q.b.
  • circa mezza cipolla non molto grande tagliata finemente
  • 30 g farina di mais (o pangrattato)
  • 1 cucchiaio di miso
  • 1/2 cucchiaio di concentrato di pomodoro
  • 1 cucchiaino di amido di mais
  • sale e pepe q.b.

N.B. Come strumenti vi serviranno un mixer/robot da cucina e una grattuggia a maglie larghe. Preparate in anticipo la quantità giusta di ingredienti che vi servono e disponeteli in ordine insieme a tutti gli attrezzi di cucina, renderà molto più armonioso l’intero processo.

PROCEDIMENTO:

  1. Tritare le noci finemente e metterle da parte.
  2. Risciacquare le lenticchie sotto l’acqua corrente per eliminare il sale in eccesso.
  3. Pulire la barbabietola e grattuggiarla.
  4. Farla rosolare in padella per due minuti con un filo di olio e sale; aggiungere poi anche il prezzemolo con aglio, una spruzzata di cumino e la paprika affumicata, fare cuocere ancora per 5 minuti finché la maggior parte del liquido della barbabietola non viene assorbito.
  5. In una bowl, mescolare le barbabietole cotte con la farina di mais, le lenticchie, le noci tritate, il cucchiaio di pasta miso, il concentrato di pomodoro e la cipolla.
  6. Aggiungere infine 1 cucchiaino di amido di mais e una generosa spruzzata di pepe nero, mischiare bene il tutto.
  7. Prendere circa 1/3 del composto e frullarlo in un mixer insieme a un filo d’olio e un cucchiaio di acqua per ottenere una consistenza simile a una purea e unirlo poi nuovamente con il resto del miscuglio più “grezzo” e mescolare.
  8. Formare dei burger se ce l’avete anche con l’aiuto di un coppapasta tondo, con queste quantità dovrebbero venire fuori 3 burger dimensione large.
  9. Passateli in padella con olio a fuoco medio-alto 2 minuti per lato e ripassateli infine in forno a 180° per 20 minuti per renderli ancora più compatti.
  10. Infine create il vostro panino con gli ingredienti che preferite. Io ci ho messo semplicemente un po’ di mayo veg, dei pomodori tagliati a fettine e delle foglie di insalata.

CITAZIONE DAL LIBRO:

[…] Questa è l’essenza che gli avete assegnato, almeno temporaneamente, per i vostri scopi, come un romanziere fa di un uomo Il Bello E Giovane Poeta o Il Vecchio Marito Geloso; e anche se sapete bene che nessun reale essere umano è mai stato soltanto un Servizievole Addetto A Un Distributore Di Benzina o un Bello E Giovane Poeta, siete nondimeno preparati a ignorare le affascinanti complessità del vostro uomo – dovete ignorarle, se volete andare avanti con la storia, o far sì che le cose avvengano secondo il piano prestabilito. Ma di ciò si parlerà più avanti, perché è collegato alla mitoterapia. Per ora basti dire che per gran parte del nostro tempo, se non sempre, siamo tutti dispensatori di ruoli, ed è saggio chi si rende conto che il suo dispensatore ruoli è, nel migliore dei casi, un’arbitraria deformazione della personalità degli attori; ma è anche più saggio chi vede, oltre a ciò, che questo arbitrio è probabilmente inevitabile, e sembra a ogni modo necessario se uno vuole raggiungere il fine che desidera.