Guerra & Pace

Sto leggendo Guerra e pace di Lev Nikolaevič Tolstoj. Chissà come mai, ma nonostante abbia letto tanti di quei romanzi di letteratura russa, Guerra e pace l’avevo cominciato a leggere una volta, ma mi ero fermata presto e non ero più andata avanti, in parte perché c’erano diverse parti in francese non tradotte e mi davano a noia. Stavolta ho deciso che il francese lo capisco anche se non l’ho mai studiato. E comunque sì, sto leggendo Guerra e pace ed è una lettura immersiva, intrigante, estremamente piacevole e questo perché Tolstoj era una persona che sapeva scrivere divinamente e questa naturalezza della narrazione e il piacere della lettura che ne deriva difficilmente lo riesci a trovare altrove. Tralasciando per un attimo gli aspetti formali legati alla scrittura, Guerra e pace è anche un romanzo che ancora ha tanto da dire: le sottili osservazioni sui comportamenti e la psicologia della persone che lui descrive possono valere lì dove sono ambientati, nei più lussuosi salotti dell’aristocrazia russa dell’800, come in qualsiasi altro luogo o epoca. La guerra, la campagna russa contro Napoleone Bonaparte, è la grande protagonista del romanzo, riempie i pensieri e le gesta dei protagonisti, modella le loro vite e certi commenti che stimola possiedono anch’essi una freschezza e lucidità di pensiero contemporanea, tanto più in questo momento tanto incerto che stiamo vivendo tra Russia e Ucraina.

– Se tutti facessero la guerra per convinzione, non ci sarebbero guerre, – disse egli.
– E sarebbe una bellissima cosa, – disse Pierre.
Il principe Andrej sorrise.
– Forse sarebbe una bellissima cosa, ma questo non sarà mai…
– Ma voi perché andate alla guerra? – domandò Pierre.
– Perché? Non lo so. Bisogna far così. E poi, io ci vado… – Si fermò. – Io ci vado perché questa vita che conduco qui, questa vita non fa per me.

Parlare di Tolstoj e cucina, inoltre, è interessante perché – non so se lo sapete – ma lui decise a un certo punto della sua vita di diventare vegetariano per assecondare una sua visione morale e filosofica dell’esistenza. Rimase vegetariano per 25 anni, ma non rinunciò mai a formaggio e uova, di queste ultime in particolare ne andava ghiotto e le cucinava nei modi più disparati. Negli ultimi anni prima della sua morte, avvenuta nel 1910 all’età di 82 anni, per una serie di ragioni i rapporti con la moglie e con i suoi figli andarono a deteriorarsi sempre di più, si dice che uno dei motivi minori per cui questo accadde riguarda proprio le sue abitudini alimentari. La moglie infatti non accettò di buon grado questa sua decisione e nonostante da quel momento in poi chiese al cuoco di preparare sempre due menu diversificati: uno vegetariano per il marito e le figlie che seguirono il suo esempio e uno onnivoro per tutti gli altri, non si rassegnò facilmente al fatto che Lev non voleva più mangiare carne, pensava che questo lo indebolisse e fosse dannoso alla sua salute, per questa ragione ogni tanto – soprattutto quando il marito era malato – chiedeva al cuoco di mettere in segreto un po’ di brodo di manzo nelle sue zuppe e quando lui lo veniva a scoprire andava su tutte le furie.

Come in quasi tutte le famiglie nobili dell’epoca, i pasti a Jasnaja Poljana erano un momento importante della giornata, soprattutto quando erano motivo di ritrovo tra amici e parenti, e intorno a essi si andarono a creare tante storie e aneddoti; tuttavia ripercorrendo le ricette che si era soliti preparare a casa Tolstoj non troviamo piatti particolarmente elaborati e raffinati, bensì ricette tipiche della tradizione popolare come vareniki, uova fritte, torta di patate, zuppa di funghi o dolci fatti in casa. Sof’ja Andreevna Tolstaja, moglie del celebre scrittore, mise insieme ai suoi tempi un ricettario che includeva tutte le principali preparazioni della famiglia, tra queste quelle più interessanti sono proprio quelle che prendono il loro nome da conoscenti e familiari: la torta del dottor Anke, la torta pasquale dei Bestuzhev, il kvas al limone di Marusia Maklakova, la torta di mele di Maria Foeth e così via. In particolare la torta del dottor Anke (un amico della madre di Sof’ja Andreevna che passò la ricetta alla famiglia) diventò un dolce irrinunciabile sulla tavola Tolstoj in occasione di ogni celebrazione importante, tanto che il figlio Ilya ricorda che “tutte le tradizioni di famiglia (e nostra madre ne introdusse molte nelle nostre vite) iniziarono a essere chiamate torta del dottor Anke. Mio padre si burlava a volte della torta del dottor Anke, chiamando torta tutte le abitudini di mia madre, benché anche lui, in quel tempo lontano della mia giovinezza, non potesse fare a meno di apprezzarla”.

In cosa consisteva questo dolce? Si trattava essenzialmente di una torta ripiena al limone. Ora, la ricetta originale di casa Tolstoj non ve la sto a riproporre perché contiene una quantità smisurata di burro e uova, al contrario ho preparato una bella crostata con ripieno al limone, che sicuramente in qualche modo può ricordarla. Siete pronti a renderla anche voi protagonista di anniversari e compleanni? Vi lascio la ricetta qui sotto. Se avete curiosità o domande lasciate un commento o scrivetemi!

INGREDIENTI:

Per la crema

  • 600 g di latte di soia
  • 120 g di zucchero bianco finissimo
  • 80 g di succo di limone (+ la buccia di uno)
  • 70 g di amido di mais
  • 1 pizzico di curcuma (facoltativo, per il colore giallo)

Per la frolla

  • 350 g di farina 2
  • 100 g di zucchero bianco
  • 70 g di acqua
  • 70 g di olio di girasole
  • 8 g di lievito per dolci
  • buccia grattugiata di un limone

Iniziate a preparare la crema unendo tutti gli ingredienti eccetto la curcuma in una pentola fuori dal fuoco e mescolate con una frusta fino ad eliminare ogni grumo. Accendete il fuoco e continuando a mescolare fate sobbollire unendo anche la buccia del limone finché la crema non risulterà densa e omogenea. Quando è ancora liquida aggiungete anche la curcuma per ottenere un bel colore giallo intenso. Eliminate la buccia di limone, togliete dal fuoco e lasciate raffreddare.

Per la frolla, preriscaldate il forno a 180° in modalità statica. In una ciotola ampia aggiungete zucchero, olio, acqua e e la scorza grattugiata del limone, unite poi la farina e il lievito e impastate fino a ottenere un panetto omogeneo, potete completare il lavoro su un piano infarinato. Stendete con l’aiuto di un matterello 3/4 dell’impasto fino a ottenere un disco di 4mm circa.

Oliate e spolverate di farina una tortiera con fondo estraibile di 26 cm di diametro. Sempre con l’aiuto del matterello trasferite l’impasto nella tortiera e fate aderire bene ai bordi facendo pressione con le mani. Bucherellate il fondo con una forchetta e ricoprite con la crema al limone.

Con l’impasto rimasto create delle strisce sottili e formate una rete sopra la torta. A questo punto è pronta per essere infornata per 40′ a 180°. Controllate sempre la cottura perché può sempre variare a seconda del forno o dello spessore della vostra frolla.

Viaggio alle Fær Øer

Ho da poco terminato il libro Isola di Siri Ranva Hjelm Jacobsen, edito in Italia da Iperborea.

Parla di una giovane ventenne danese, la cui famiglia da parte di madre ha radici faroesi, ed è proprio qui, verso le isole Faroe (letteralmente isola delle pecore), che si reca in viaggio con i suoi genitori in seguito alla morte dei suoi nonni, con cui aveva un rapporto molto speciale: l’amata omma, la nonna Marita, che negli anni Trenta dalle Faroe si trasferì a Copenhagen per stare accanto al suo amato, Fritz (il nonno abbi), per rincorrere sogni di modernità e maggiore ricchezza. Un’occasione triste diventa lo stimolo per la contemplazione e l’interrogazione: perché sentiamo il bisogno di tornare dopo essere partiti? Cosa fa di una terra una casa? In che modo i nostri antenati e parenti definiscono il nostro passato, presente e futuro? Come si costruisce la nostra identità attraverso i cambiamenti tra le generazioni?

Queste sono alcune delle domande che la protagonista, non appena atterrata all’aeroporto di Vagàr, fa a sé stessa, chiedendosi cosa significhi avere radici in una determinata terra, i legami che ci uniscono alla nostra famiglia, come essi vanno a fissare la nostra identità e che cosa si possa effettivamente definire casa. Anche i suoi nonni, veniamo a sapere nel corso della narrazione, nonostante avessero lasciato l’isola, non furono mai abbandonati dal ricordo nostalgico di quelle terre selvagge battute dal vento e da un segreto anelito a ritornarci.

Avevo un ricordo di questo posto insieme ad abbi: quell’estate aveva piovuto senza interruzioni. Io avevo preso il mio primo bel 13 in geologia, onestamente anche l’unico. Omma era morta l’inverno prima e abbi era smarrito, fragile. Aveva nostalgia del Nord. quando arrivarono le vacanze, volammo tutti insieme a casa. Dicevamo così, da sempre. A casa, sulle isole. A casa, a Suduroy. A casa, a Sørvágur.
Mia madre è nata a Vordingborg, io nel più grande ospedale di Copenhagen. Si fanno tanti discorsi su cosa sia casa. Uno stato d’animo, le persone che s’incontrano, roba del genere. Per me erano solenni stronzate. Roba da cosmopoliti con lo zaino in spalla, che parlano con la bocca piena di terra, piena di carne. Che vanno in giro a masticare il mondo.
Casa è un toponimo, pensavo. Un nome geografico.
Ma quella volta, con abbi: un agosto umido e verde. Verde muschio, verde nebbia, verde bottiglia.

Le Faroe si aprono ai nostri occhi tramite quelli della protagonista come un mondo estraneo, a sé stante, quasi mitologico e sospeso nello spazio e nel tempo; a tratti ostile nei confronti dell’altro talmente sono forti, identitarie e coriacee le tradizioni che lo abitano: dalla caccia alle balene, alla notte di San Giovanni a giugno – Jóansøku – animata da regate, danze e canti fino all’arte culinaria di essiccare cosciotti di pecora al vento.

Le Faroe rivendicano la loro appartenenza non europea, difendono la loro peculiarità, persino la lingua è diversa dal danese, un altro elemento che contribuisce a creare estraneità nella protagonista che il faroese non lo domina totalmente. Un universo linguistico simile ma differente, ammantato da leggende e saghe che si perdono nella notte dei tempi, Siri Jacobsen in questo romanzo semi autobiografico è riuscita a unire la dimensione folkloristica (streghe del mare, le fate – huldra – che si nascondono sotto i massi in giardino e isole galleggianti che si spostano misteriosamente) a una più intima e universale, quale la ricerca di identità, il venire a patti con una nostalgia dai confini labili e quella del viaggio, che è ritorno a un luogo, a casa, ma anche partenza da un altro posto e in entrambi i gesti si insinua qualcosa di destabilizzante, un piccolo sradicamento che genera interrogazioni e ci mette di fronte punti di vista inediti.

Il tutto tratteggiato da una narrazione che fa avanti e indietro tra il presente e la storia passata della famiglia per scrutare nelle vite di chi è venuto prima, tramite un linguaggio immaginifico ed evocativo che ti fa quasi pensare che questo romanzo non sia stato scritto, ma dipinto.

*

Leggendo il romanzo mi sono interrogata su quale posto possa mai avere la cucina vegana in un luogo così fortemente connotato dal punto di vista geografico e culturale come questo. Nel libro vengono fatte spesso menzioni alla cucina locale, la protagonista stessa mostra dei tentennamenti di fronte al consumo di carne

Avevo appena scoperto il riscaldamento globale, il consumismo, le macellazioni di massa, e rifiutavo la zuppa di carne con panna e pomodori pelati, che peraltro era all’ultimo grido.

ma i freezer di quasi tutta la popolazione faroese sono zeppi di pezzi di carne di balena, che è normale costume mangiare in questi luoghi. Per non parlare della skærpelår, la tradizionale coscia di pecora lasciata essiccare al vento, naturalmente salata dal sale che viene dal mare, che per qualche ragione, nonostante emani un odore putrido di carogna e di formaggio vecchio, è tanto apprezzata alla Faroe.

Io resto della mia opinione, sono arrivata a un punto in cui molto difficilmente riuscirei a buttare giù un pezzo di carne, lo trovo troppo scorretto e ingiusto nei confronti della vita dell’animale, per non parlare dei danni che questo causa all’ambiente. Ma se la prima ragione che spinge a smettere di mangiare carne è universalmente valida in quanto basata su un giudizio etico, la seconda può avere delle piccole eccezioni. Mi spiego meglio: credo che decidere di mangiare carne o pesce in un contesto in cui hai tutte le alternative possibili sulla tavola, quindi cibo vegetale o non vegetale in grandi quantità, facilmente reperibile, sia molto diverso dal farlo laddove invece di alternative non ne hai o ne hai molto poche, come è il caso delle isole Faroe.

Leggevo, e del resto è facilmente intuibile, che qui per via del clima la coltura di quasi tutti i vegetali è praticamente impossibile, salvo qualche tubero o radice, la stessa cosa per gli alberi da frutta, per cui la quasi totalità di frutta e verdura deve essere importata dall’estero a costi esorbitanti. Dunque nella dieta di un locale è molto difficile che siano presenti questi due elementi, per loro è più scontato e intelligente utilizzare quello che la natura offre loro in abbondanza praticamente a costo zero, ossia pesce – qualsiasi punto sulle isole Faroe non dista più di 5 km dal mare – o carne, per lo più agnello o pecora, anche qui, su circa 50.000 abitanti totali delle isole abbiamo 70.000 pecore. 

In un contesto del genere non dico che sia giusto – mi allontano da qualsiasi giudizio morale, sto solo cercando di applicare del sano raziocinio oltre al fatto che detesto i manicheismi – ma arrivo per lo meno a comprendere molto di più il consumo di carne e pesce perché la trovo una scelta, ripeto in un contesto geografico così particolare e circoscritto, più idonea e in sintonia con la natura e l’ambiente circostante, una scelta sostenibile, molto più che in tanti altri punti del nostro pianeta.

Detto questo, le vie che mi aprivano erano due: armeggiare con patate e barbabietole oppure cucinare qualcosa che ricordasse il mare senza utilizzare il pesce. Sebbene sia stata molto tentata dalla prima opzione, ho deciso tuttavia di percorrere la seconda e quelle che vi presento qui sotto sono delle crocchette di finto pesce in cui il sapore del mare viene evocato dalle alghe. Un piatto originale, estremamente piacevole, perfetto da abbinare con una maionese vegana o qualche altra salsina.

INGREDIENTI:

  • 100 g di tofu al naturale, asciugato dai liquidi in eccesso
  • 140 g di ceci lessati
  • 10 g di alghe varie (io ho usato la confezione de La finestra sul cielo acquistata da NaturaSì)
  • 20 g di daikon essiccato (lo trovate sempre da NaturaSì o in altri negozi bio)
  • 1 cucchiaio di lievito alimentare (facoltativo)
  • 1 cucchiaio di gomasio (potete sostituirlo mettendo più sale, io ne ho usato proprio pochissimo avendo già il lievito alimentare e il gomasio, che sono entrambi insaporitori)
  • 1 cucchiaio di olio evo
  • pan grattato q.b.
  • 50 g di semi vari (io ho usato un mix di semi di papavero e semi di sesamo)

PROCEDIMENTO:

Per prima cosa far reidratare le alghe e il daikon secco: vi basterà metterli in due ciotole, ricoprirli di acqua e aspettare una decina di minuti. Trascorso il tempo, scolateli e uniteli al bicchiere di un frullatore insieme a tutti gli altri ingredienti esclusi i semi. Anche il pan grattato vi consiglio di metterlo in un secondo momento: frullate prima per qualche minuto il tofu spezzettato, i ceci, le alghe e il daikon con i vari condimenti, dopodiché aggiungete tanto pan grattato quanto vi basta per ottenere un impasto facilmente modellabile con le mani.

A questo punto preparate una teglia da forno, oliatela leggermente, prelevate una cucchiaiata abbondante di impasto e tuffatela nei semi che avrete versato su un piatto. Formate delle crocchette allungate con le mani, o anche delle polpette tonde se preferite, e adagiate sulla teglia. Verranno fuori all’incirca 10 crocchette. Cuocete in forno preriscaldato a 180° per 20 minuti, finché saranno dorate, negli ultimi minuti io ho azionato la funzione grill.

Le ho servite infine con della maionese vegana, erano ottime!

Potete servirle come un originale antipasto o come secondo unendole per esempio a un contorno di patate.

Ricorda con rabbia, e gusto

Don’t look back in anger, I heard you say cantavano gli Oasis. John Osborne invece la rabbia ce la mette e tanta.

Oggi volevo parlarvi di questo testo teatrale in cui sono inciampata per caso scorrendo la libreria del mio fiancè e che mi ha ricordato quanto possa essere bello anche il teatro. Mi ha ricordato anche i tempi in cui facevo corsi di scrittura creativa e tutti immancabilmente dicevano che per imparare a scrivere dei dialoghi credibili ed efficaci è necessario leggere tanto buon teatro.

Questa pièce si colloca nell’Inghilterra degli anni ’50. Entriamo nell’appartamento di Alison e Jimmy Porter, una giovane coppia sposata da tre anni che vive con pochi mezzi insieme a Cliff Lewis, amico intimo di Jimmy. Alison viene da una famiglia dell’alta borghesia, Jimmy è un working class man di grande cultura, che disprezza tutti i valori che la famiglia di Alison incarna.

Jimmy è un personaggio sfuggente con cui risulta allo stesso tempo facile e difficile empatizzare, è l’incarnazione di quella rabbia di cui si parla nel titolo. È sincero fino a essere crudele, irrequieto, pressante, alla costante ricerca di pretesti contro cui inveire, che siano episodi di cronaca o tratti delle persone che stanno a lui vicine, è a momenti violento, ma di quella violenza che sottintende una grande vulnerabilità.

Alison appare più dimessa, rassegnata, circondata da un alone di contegnoso disdegno. È incinta, ma non riesce a trovare il coraggio di dirlo al marito perché non sa come accoglierebbe una notizia del genere, riesce solo a confidarsi con il suo amico Cliff. Per gran parte del primo atto Jimmy, tra la lettura di un giornale della domenica e un altro, si prodiga in lunghe tirate contro l’autocompiacimento della classe borghese che vive in una sorta di annullamento dei sensi, non risparmia nessuno, nemmeno frecciatine maligne contro la moglie che nel mentre stira i panni. Un momento di sincera tenerezza tra i due si apre verso la fine dell’atto quando rivelano questo curioso gioco per cui lui sarebbe un grosso orso burbero e Alison un piccolo scoiattolo, di cui hanno due pupazzi di pezza sul cassettone in camera da letto. Questo gioco segreto all’essere animali che si dimenano, si rincorrono e si uniscono poi nell’atto d’amore è una sorta di sigillo al loro matrimonio. Il ritrovato equilibrio si spezza poco dopo quando arriva la notizia che Helena, un’attrice amica di Alison, è in città e verrà a trovarli. Jimmy ne risulta profondamente disturbato, fino ad augurare ad Alison di avere un bambino e di vederlo morire così da potersi svegliare dal placido sonno che la intorpidisce.

Nel secondo atto lo status quo si spezza definitivamente: Alison, forse anche grazie alla persuasione dell’amica che si ferma per un po’ di tempo a vivere con loro, decide finalmente di lasciare Jimmy e tornare dai propri genitori. Si svelano però diversi retroscena che permettono di inquadrare meglio perché Jimmy si comporti in questo modo. Lui stesso racconta dell’esperienza dolorosa vissuta a fianco del padre morente mentre sua madre se ne infischiava; il padre di Alison, il colonnello Redfern, mentre arriva a prendere Alison si apre con la figlia e ammette che lui e la moglie sono stati forse troppo duri con Jimmy quando i due avevano deciso di sposarsi e che quindi la rabbia di Jimmy abbia effettivamente ragione d’essere. Alison è stupita di fronte alle parole del padre, ma questo non le impedisce di tornare sui suoi passi e abbandona effettivamente Jimmy alla fine del secondo atto.

A questo punto Helena e Jimmy, che sembravano provare un odio viscerale nei confronti uno dell’altra, diventano amanti e il terzo atto si apre allo stesso modo in cui si è aperto il primo solo che Helena ha preso il posto di Alison. Finché quest’ultima non rimette piede sulla scena, scompaginando questo nuovo quadro che si era venuto a creare. Le due donne hanno un confronto, pacato, Alison confesserà di avere perso il bambino, mentre Helena ammette di non essere fatta per portare avanti una vita del genere e decide di andarsene. Jimmy e Alison, entrambi grandi sconfitti della vita, decidono di tornare insieme e lenire ciascuno il proprio dolore nel loro gioco privato di orso e scoiattolo.

Se questa pièce fosse soltanto il documento di una rabbia contro l’establishment, contro l’Inghilterra conservatrice, contro alcuni ovvi dati della realtà e le sue ingiustizie, forse non avrebbe rappresentato niente di particolarmente nuovo. C’è qualcosa di più che la rende degna di essere letta ed è la rappresentazione psicologica dei suoi personaggi. Jimmy catalizza su di sé tutta l’attenzione ed è un fuoco d’artificio, ma Alison risulta in fin dei conti uno dei personaggio più complessi. Sembrerebbe intrappolata nella classica dinamica di moglie sottomessa al marito, ma in realtà lei è una vittima consenziente di Jimmy, ha consapevolmente accettato un matrimonio costruito sulle fondamenta ideologiche del marito, sapeva ciò a cui andava incontro. Alison non ha niente dell’irruenza invettiva di Jimmy, ma tacitamente si avverte che ne condivide gli ideali e in effetti ha la forza di staccarsi dalla sua famiglia e dal suo ambiente che le avrebbe garantito un’esistenza più che tranquilla per vivere con Jimmy, in una sorta di continua espiazione delle sue colpe di classe. Jimmy di contro prova sicuramente un sincero affetto per lei, ma nello stesso tempo la tratta come se fosse una sorta di trofeo strappato dalle morse del nemico. Sono entrambi delle persone deluse dalla vita che non possono nulla se non rifugiarsi nel loro universo appartato rappresentato in quella soffitta dove la domenica si leggono i giornali, si fanno battute oscene, ci si arruffa, si beve il tè e si ascoltano i concerti alla radio. C’è un passaggio in cui Helena definisce Jimmy in questa maniera: “Non c’è più posto per la gente come lui… nel mondo del sesso, della politica… di tutto. Per questo è così inconcludente. Certe volte, quando lo ascolto parlare, ho l’impressione che si senta ancora in piena rivoluzione francese. E sarebbe il suo vero posto, del resto. Non sa dove si trova, né sa dove sta andando. Non farà mai niente e non conterà mai niente.” Jimmy si vanta spesso di essere una persona molto intelligente, ma non ha la lucidità necessaria, calata nel reale, per ammettere la verità delle parole di Helena, o se l’ha capito vuole comunque fuggirne e qui sta tutta la commovente tragicità di questo personaggio che nel finale si trasferisce anche su Alison. Sfumata la possibilità di avere un figlio che le avrebbe garantito forse un appiglio più certo sul reale, anche ad Alison non resta che tornare nella tana, a interpretare la scoiattolina che si prende cura dell’orso.

IL PIATTO DEL LIBRO: i tre atti di questo testo teatrale hanno luogo tutti la domenica. Una domenica inglese di provincia, quando magari fuori piove, ci si annoia e non si ha niente di particolare da fare. Quest’atmosfera di caldo torpore mi ha fatto ritornare alla mente quegli abbondanti piatti della tradizione inglese, caldi e sostanziosi, come per esempio la Shepherd’s Pie, che viene tradizionalmente preparata con carne d’agnello ricoperta da una purea di patate. Per renderla totalmente plant-based, ho utilizzato al posto dell’agnello le lenticchie e credo si sposi benissimo con le atmosfere del testo di Osborne. Vediamo insieme come prepararla, ho preso ispirazione da quella di Minimalist Baker.

INGREDIENTI:

PER LA PUREA DI PATATE

  • 1 kg di patate
  • 3-4 cucchiai di burro vegano
  • sale, pepe, noce moscata

RIPIENO

  • 1 cipolla media
  • 2 spicchi di aglio
  • 2 cucchiai di concentrato di pomodoro
  • 250 g di lenticchie secche
  • 1 lt di brodo vegetale
  • 1 confezione di verdure miste congelate (280 g ca)
  • erbe aromatiche (io avevo solo la salvia, ma il timo o il rosmarino sarebbero perfetti)
  • sale, olio, pepe q.b.

PROCEDIMENTO:

  1. Sbucciate le patate e tagliatele a metà. Mettetele in una pentola e ricopritele con acqua. Portate a bollore, salate e coprite con un coperchio abbassando il fuoco. Lasciate andare per circa 30 minuti finché non saranno molto morbide.
  2. Intanto tagliate la cipolla sottile e fatela rosolare con un po’ di olio e i due spicchi d’aglio in una pentola capiente, aggiungere un po’ di brodo se necessario. Passati circa 5 minuti aggiungete il concentrato di pomodoro, le lenticchie, il brodo, le erbe aromatiche. Portate a bollore e abbassate poi il fuoco coprendo con un coperchio. Lasciate cuocere a fuoco basso finché le lenticchie saranno morbide, ci vorranno circa 35-40 minuti.
  3. Intanto scolate le patate quando saranno pronte e trasformatele in una purea con l’aiuto di uno schiacciapatate. Aggiungete anche il burro vegetale, sale, pepe e un pizzico di noce moscata, mescolate (se il composto risulta troppo denso potete ammorbidirlo anche con un po’ di latte vegetale).
  4. Circa 10 minuti prima della fine della cottura delle lenticchie aggiungete anche le verdure congelate. Mescolate e coprite per far mescolare insieme i sapori.
  5. Verso fine cottura togliete il coperchio e alzate il fuoco soprattutto se è necessario eliminare gli ultimi liquidi in eccesso. Per rendere più consistente il composto di lenticchie è possibile aggiungere anche 2 o 3 cucchiai di purea di patate o un cucchiaio di amido di mais. Assaggiate e regolate eventualmente di sale e pepe.
  6. Preriscaldate il forno a 250°.
  7. Trasferite le lenticchie in una casseruola da forno e ricopritele con la purea di patate, se avete un sac a poche potrebbe risultare molto comodo.
  8. Infornate e lasciate cuocere per circa 15 minuti, gli ultimi con l’opzione grill attivata per rendere più dorate e croccanti le patate.

CITAZIONE DAL LIBRO:

JIMMY (con voce bassa e rassegnata) Tutti vogliono sfuggire alla pena di essere vivi. E soprattutto vogliono sfuggire all’amore. (Va alla “toilette”) L’ho sempre saputo che qualcosa del genere sarebbe successo… un dramma di coscienza tipo la moglie malata… che avrebbe sconvolto i tuoi sentimenti delicati di fiore di serra. (Raccoglie la roba di Helena sulla “toilette” e va all’armadio guardaroba. Fuori cominciano a suonare le campane) È inutile cercare di ingannarsi sull’amore. Non puoi accettarlo come si accetta un impiego facile, senza sporcarti le mani. (Le porge la roba e apre l’armadio) Ci vogliono muscoli e coraggio. E se non riesci a sopportare l’idea… (stacca un vestito dalla stampella) di sporcare la tua bell’anima di bucato… (le si avvicina) farai meglio a rinunciare decisamente alla vita e avviarti alla santità… (le dà il vestito) perché come essere umano, sei fuori strada… Bisogna scegliere tra questo mondo e quell’altro… (Helena lo guarda un attimo ed esce rapidamente. Jimmy è scosso ed evita gli occhi di Alison. Poi va alla finestra. Ci si appoggia e batte il pugno sul telaio) Oh, quelle campane!