Dostoevskij, lo scrittore del giallo

Ci sono due pregiudizi in particolare che vorrei estirpare dalla testa delle persone. Il primo è che i broccoletti non siano anche buonissimi oltre che sani, il secondo è che la letteratura russia sia un noioso mattone. Niente di più falso. Nel tentativo di spiegarvi perché, ho ripreso in mano uno dei suoi più grandi classici, Delitto e castigo.

Questo anche perché vorrei restituire un connubio tra letteratura e cucina che non sia necessariamente legato solo alla nazionalità dell’autore o all’ambientazione del libro. È possibile infatti ritrovare, soprattutto nella grande letteratura, un incredibile gioco dei sensi che va a supportare e innalzare il semplice impianto narrativo. Dostoevskij in particolare è famoso per certe ambientazioni che ha saputo creare nei suoi romanzi in cui si percepisce un senso di claustrofobia o asfissia che spesso risulta uno specchio di ciò che accade nella mente dei suoi protagonisti. Delitto e castigo stesso ha un incipit che immediatamente vuole afferrare il lettore e immergerlo nell’atmosfera del romanzo: “All’inizio di un luglio straordinariamente caldo”. Ci dimentichiamo subito della Russia dei grandi freddi per iniziare a provare quel senso di soffocamento dato da un’eccessiva umidità o afosità estiva, che ti obnubila la mente e mette in allerta il sistema nervoso. Questo è il quadro in cui viaggeremo, almeno nella prima parte (e diciamocelo, quella più interessante) del romanzo e Dostoevskij lo mette bene in chiaro fin da subito. “Per strada c’era una caldo soffocante, afoso, e c’era gente dappertutto, dovunque c’era calce, legno, mattoni, polvere, e quel particolare lezzo estivo, così familiare a tutti gli abitanti di Pietroburgo che non abbiano la possibilità di affittarsi una dacia: tutto ciò improvvisamente scosse i nervi del giovane che erano già piuttosto tesi.”

Dostoevskij è poi lo scrittore del giallo non tanto perché, soprattutto in Delitto e castigo, mette in scena un omicidio, ma perché Pietroburgo, la città dove sono ambientati tanti dei suoi romanzi compreso gran parte di questo, è lo scenario perfetto per la follia dei suoi protagonisti. Non è la Pietroburgo dagli scenari grandiosi, ma una Pietroburgo fatta di piccoli vicoli, di mansarde, di povera gente che ogni giorno fa i conti con la vita, è una città colorata di giallo, il colore predominante di ogni sua descrizione, il coloro della malattia, della carta da parati giallognola e polverosa che si stacca dalle pareti dello stanzino in cui sta in affitto il giovane Raskòl’nikov.

La storia ormai la conoscete tutti. Rodiòn Romànovič Raskòl’nikov, ex studente di legge costretto ad abbandonare gli studi per problemi economici, spinto dall’indigenza e da un livore generale verso la società che lo circonda decide di uccidere una vecchia usuraia di sua conoscenza, nella convinzione che certe persone straordinarie abbiano il diritto di andare al di là della morale impunite, ossia commettere atti volti a delinquere purché vi sia un fine superiore a giustificarli, questo secondo Rodja divide gli uomini ordinari dal superuomo di stampo nietzschiano. Salvo poi, una volta commesso il delitto, duplice perché ne risulta vittima anche la sorella dell’usuraia, essere divorato dalla paranoia e dalla desolazione psicologica che quest’azione scatenano nel giovane, salvato poi solo dall’incontro con Sonja, un’anima pura e caritatevole, costretta a prostituirsi per mantenere la famiglia, che lo condurrà nell’epilogo sulla via del pentimento e della salvezza.

Ma perché ancora oggi, a più di 150 anni dalla sua pubblicazione, rimane un libro da leggere? Ci sono diversi motivi. Uno di questi è che Dostoevskij fu uno dei primi scrittori a restituire una descrizione della psiche umana e dei suoi meccanismi tanto straordinariamente accurata da risultare quasi fastidiosa e difficilmente altri dopo di lui riuscirono a farlo altrettanto bene. Leggendo non possiamo fare a meno di immedesimarci nei ragionamenti del protagonista e condividerne manie e tormenti. Dostoevskij fu il primo scrittore a essere in grado di mettere in scena uno dei tratti fondamentali che caratterizza l’uomo, la scissione dell’io, e ciò che lo rende un classico è il fatto che i temi da lui trattati non siano invecchiati, che la nevrosi degli uomini del sottosuolo dostoevskiani sia la medesima che colpisce l’uomo moderno. Il nome stesso del protagonista, Raskòl’nikov, deriva dal verbo russo раскалывать che significa spaccare, scindere. Il disprezzo e la frustrazione verso la propria condizione misera che lo portano ad avere sentimenti contrastanti nei confronti della società, a metterne in discussione lo status quo, a ridisegnarne le regole sono assolutamente contemporanei. Raskòl’nikov è un uomo in cui, come in ciascuno di noi, convivono sentimenti contrastanti, a volte estremi: la freddezza dell’omicidio derivata dalla riflessione e un’isteria quasi paralizzante, il cinismo e il pentimento, la rabbia e un sentimentalismo pervasivo. L’atto criminale da lui commesso non è fine a sé stesso, ma il culmine di un ragionamento che vuole raggirare una morale dominante che per l’uomo spesso risulta mortifera e ingiusta. Raskòl’nikov uccide perché vuole dimostrare la potenza della razionalità sull’ordine prestabilito e risulta sconfitto non tanto perché pentito del delitto in sé per sé, ma perché non si è rivelato in grado di essere il superuomo che pensava di potere essere, non ne ha sostenuto il peso.

Mi riesce molto difficile, ma viene fatto spesso, incasellare un romanzo come Delitto e castigo nella chiave di lettura della sofferenza cristiana che porta alla salvezza; a mio parere il fascino più grande dei personaggi di Dostoevskij, quello che ti tiene davvero attaccato alla pagina, è che come nei grandi amori non corrisposti risultano inafferrabili. Nella loro complessità imprendibili. Dialogano con il lettore, lo rendono parte delle proprie riflessioni, delle proprie spaccature, ma non si lasciano mai intrappolare in una definizione, è impossibile tracciarne con chiarezza i limiti e questo è quello che ci fa innamorare di loro.

Come infarinatura generale direi che per questa volta può bastare.

IL PIATTO DEL LIBRO: questa volta ho deciso di puntare sul senso della vista, di giocare con l’uso del colore giallo che Dostoevskij fa nei suoi romanzi, che come detto poco sopra simboleggia la povertà, la malattia – soprattutto dei nervi – che coglie il protagonista e sembra riflettersi come in uno specchio anche nella città che lo circonda. Un tema che trova un parallelismo importante, sebbene probabilmente del tutto casuale, nell’uso del giallo che per esempio fa un pittore come Van Gogh, anche lui affetto da problemi di salute mentale. Così ho preso in rassegna tutti gli ingredienti gialli che mi venivano in mente e mi sono fermata sullo zafferano. E da buona milanese importata, ecco quindi per voi una semplice ricetta di un risotto plant-based allo zafferano.

INGREDIENTI PER 2-3 PERSONE:

  • 220 g riso carnaroli
  • 1 bustina di zafferano
  • burro vegetale q.b.
  • 1/2 cipolla per soffritto
  • 1/2 bicchiere vino bianco secco
  • 1 carota, 1 cipolla, 1 gambo di sedano per fare il brodo vegetale
  • lievito alimentare q.b.
  • funghi chiodini

Per prima cosa preparate il brodo vegetale mettendo sul fuoco in circa 800 ml di acqua le verdure tagliate a pezzi, portate a ebollizione e mantenete il brodo sulla fiamma bassa accesa per tutto il tempo della preparazione del risotto, è fondamentale che mantenga il calore.

In una padella fate tostare il riso a secco per due, tre minuti a fiamma viva finché non rilascerà il suo aroma, è importante per aprire i chicchi e fare in modo che assorbano meglio i liquidi. Togliete poi il riso e nella stessa padella fate appassire insieme a un mestolo di brodo una cipolla tagliata molto finemente (io la trito con il mini-pimmer) avendo cura che non si bruci.

Aggiungete poi il riso precedentemente tostato e lasciate insaporire, versate quindi il vino e fatelo evaporare mantenendo un fuoco vivace. Di seguito aggiungete due mestoli di brodo alla volta aspettando che si asciughi quasi totalmente prima di aggiungerne dell’altro. A circa dieci minuti dalla cottura aggiungete anche lo zafferano sciolto con un po’ di brodo caldo. A cottura del riso ultimata togliete dal fuoco e mantecate con una noce di burro vegetale e una spolverata di lievito alimentare. Potete mantenere una consistenza più o meno liquida lavorando sul brodo.

A guarnire ho aggiunto dei funghi chiodini fatti saltare in padella.

Buon autunno e buona lettura! Non dimenticatevi di leggere la citazione dal libro scelta per voi più sotto…

CITAZIONE DAL LIBRO:

« […] Più semplicemente alludevo al fatto che l’uomo “straordinario” ha il diritto… ovvero, non un diritto ufficiale, ma lui stesso è in possesso del diritto di permettere alla sua coscienza di superare… certi ostacoli, e unicamente nel caso che la realizzazione della sua idea (che alle volte può essere salvifica per l’intera umanità) lo esiga. Voi avete avuto la compiacenza di affermare che il mio articolo è poco chiaro; sono pronto a chiarirvelo, nella misura delle mie possibilità. Forse non sbaglio supponendo che voi vogliate proprio questo; ma prego… Secondo me, se le scoperte di Keplero e Newton, a seguito di certe macchinazioni, non avessero potuto in alcun modo diventare note alla gente se non con il sacrificio della vita di uno, dieci, cento e più uomini che ne avessero impedito la diffusione o che si fossero frapposti lungo il loro cammino in qualità di ostacoli, allora Newton avrebbe avuto il diritto, e sarebbe persino stato obbligato a… togliere di mezzo questi dieci o cento uomini per render note le sue scoperte all’intera umanità. Da ciò d’altronde non consegue che Newton avesse il diritto di ammazzare chi voleva, il primo venuto, o di rubare ogni giorno al mercato. Più avanti, se non ricordo male, nel mio articolo sviluppo l’idea che tutti… be’ per esempio mettiamo anche solo i legislatori e gli orientatori dell’umanità, a partire dagli antichi, continuando con i vari Licurgo, Solone, Maometto, Napoleone e così via, tutti fino all’ultimo erano dei delinquenti, anche per il solo fatto che, dando all’uomo una nuova legge, con questo hanno infranto la legge antica, santamente venerata dalla società e trasmessa dai padri, e, tuttavia, non si sono fermati davanti al sangue, se solo il sangue (alle volte del tutto innocente e versato con eroismo per l’antica legge) poteva esser loro d’aiuto. È persino sorprendente che una gran parte di questi benefattori e orientatori dell’umanità siano stati dei massacratori particolarmente terribili. In una parola, io dimostro che tutte le persone, non solo quelle grandi, ma quelle che appena appena escono dalla norma, cioè persino quelle appena in grado di dire qualcosa di nuovo, devono, per loro natura, essere dei delinquenti, in misura minora o maggiore, s’intende. In una parola, vedete che fino a questo punto non c’è niente di particolarmente nuovo. Per quel che riguarda la mia suddivisione delle persone in ordinarie e straordinarie, sono d’accordo che sia alquanto arbitraria, ma non insisto certo su un numero preciso. Io mi limito a credere nel mio pensiero fondamentale. Esso consiste precisamente nel fatto che la gente, per una legge di natura, si divide generalmente in due categorie: una inferiore (gli ordinari), ovvero, per così dire, il materiale utile unicamente alla procreazione di qualcosa di simile a se stesso, e un’altra che è quella degli uomini, ovvero di coloro in possesso del dono o del talento di dire la loro parola nuova nell’ambiente. A questo punto s’intende che le suddivisioni sono infinite, ma i tratti distintivi di entrambe le categorie sono abbastanza netti: la prima categoria, ovvero il materiale, parlando in termini generali consiste in persone per loro natura conservatrici, ammodo, che vivono nell’obbedienza e amano essere obbedienti. Secondo me sono persino costrette a essere obbedienti, perché tale è la loro destinazione, e in questo per loro non c’è assolutamente nulla di umiliante. Nella seconda categoria, invece, tutti violano la legge, sono dei distruttori, o sono inclini a esserlo, a seconda della capacità. S’intende che i delitti di queste persone sono relativi, e dei più vari; perlopiù essi esigono, nelle forme più svariate, la distruzione del presente in nome di qualcosa di migliore. […] D’altronde non c’è molto di cui preoccuparsi: la massa quasi mai riconosce loro questo diritto, perlopiù li giustizia e li impicca, e in tal modo adempie in modo assolutamente corretto al proprio destino conservatore, col che, tuttavia, nelle generazioni successive quella stessa massa perlopiù metterà i giustiziati su un piedistallo e si inchinerà loro. La prima categoria è sempre signora del presente, la seconda categoria è signora del futuro. I primi conservano il mondo e l’accrescono numericamente; i secondi muovono il mondo e lo conducono verso una meta. Tanto questi che quelli hanno esattamente lo stesso diritto di esistere. In una parola, per me tutti hanno un diritto equivalente, e vive la guerre éternelle, fino alla nuova Gerusalemme, s’intende!»

Nella direzione opposta

Thomas Bernhard è uno dei più grandi scrittori europei del Novecento. Si è scavato il suo spazio nel panorama letterario creando uno stile unico e micidiale. Lessi per primo Il soccombente, mi bastarono poche righe per rimanere folgorata e da lì in poi divenne uno dei miei rifugi di intelligenza preferiti, uno dei ripari sicuri a cui tornare nei momenti di tempesta. E laddove si potrebbe leggere una letteratura pessimista, esageratamente negativa e polemica, io ci ho sempre visto la massima lucidità, lo sforzo della razionalità che scala le insensatezze dell’esistenza e con difficoltà arriva in cima per godere di un panorama che regala una visione a 360°.

Come dissi già una volta, si potrebbe dire, con qualche margine di generalizzazione, che Bernhard nella sua vita abbia scritto un solo lungo libro: la sua penna è immediatamente riconoscibile grazie a uno stile in cui il come è perfettamente a servizio del cosa – anche se a suo dire il come lo interessò sempre più del cosa – e in effetti le tematiche che troviamo nei suoi romanzi sono ricorrenti. Ne cito alcune: l’ottusità delle convenzioni sociali, le difficoltà della vita familiare, pensieri sulla morte, la malattia e il suicidio, raccontate per lo più tramite monologhi, flussi di pensiero ininterrotti in cui il pensiero si dirama, si flette, salta ostacoli, ripiega su se stesso, si scontra con l’ossessione della ripetitività, dell’esagerazione per poi lanciarsi a momenti in libere corse. Tutti concetti che, a dire la verità, ne nascondono solo uno e fondamentale: la vita come teatro.

Ultimamente ho letto La cantina, romanzo abbastanza breve che fa parte dei cinque che insieme a L’origine – un accennoIl respiro – una decisioneIl freddo – una segregazione e per ultimo Un bambino compongono la sua autobiografia. Ne La cantina in particolare parla di un momento decisivo nella sua adolescenza quando scelse di abbandonare il ginnasio per andare nella direzione opposta. Direzione opposta in tutti i sensi, metaforicamente e letteralmente, lasciando quindi il ginnasio in uno dei quartieri più posh di Salisburgo per andare a fare l’apprendista in una cantina di alimentari nella parte più malfamata e degradata della città, decisione che significò per lui la sopravvivenza, la migliore che potesse prendere.

Ragioni per cui dovreste leggere questo libro:

  • se volete essere storditi (positivamente, si capisce);
  • se in un libro vi interessa più la fattura della trama;
  • se ritenete che la consapevolezza nella vita sia un bene prezioso e non un mostro da cui scappare;
  • se siete a un punto di svolta nella vostra vita e avete bisogno di andare nella direzione opposta;
  • se volete ridere, perché l’arte dell’esagerazione ha in sé il germe del comico;
  • se vi fanno passare per misantropi, ma poi si sa che non è questo il punto;
  • se odiate gli austriaci (no scherzo, questo non prendetelo davvero in considerazione).

IL PIATTO DEL LIBRO: A proposito, si sa che Bernhard molto spesso nei suoi libri non la tocca leggera con l’Austria, il suo paese, agli austriaci gliene ha dette di tutti i colori, quindi mi sembra giusto proseguire sulla sua linea, spingere le cose fino all’estremo e creare per questo secondo appuntamento di settembre proprio un piatto tipicamente austriaco (viennese) per il nostro Bernhard: la cotoletta, ma nella direzione opposta: vegana! La versione che vi propongo qui è mutuata da diverse cose trovate sul web, ma rifatta con il mix di ingredienti che ho trovato più di mio gusto. Potete accompagnarla con il contorno che volete, ma io sono andata proprio sul classico.

INGREDIENTI per 4 persone:

  • 150 g farina di ceci
  • 100 ml acqua temperatura ambiente
  • 1 cucchiaino di sale
  • 1 pizzico di paprika affumicata
  • 1 cucchiaio fecola di patate
  • 1 cucchiaio di olio evo
  • 1 cucchiaino di senape
  • farina di mais q.b. per impanare alla fine
  • limone e prezzemolo per guarnire
  • burro vegetale q.b.

PROCEDIMENTO:

Unite in una ciotola tutti gli ingredienti tenendo per ultimi olio e acqua, mescolate fino a ottenere una pastella morbida ma abbastanza compatta e lasciate riposare per almeno mezz’ora/un’ora.

Versate il pangrattato in una ciotola, prelevate un cucchiaio generoso di pastella e passatela nel pangrattato schiacciandola poi con le mani per darle la forma di una cotoletta.

Nella versione originale, la Wiener schnitzel viene fatta cuocere nel butterschmalz (burro chiarificato), quindi anziché usare l’olio, ho fatto sciogliere in una padella antiaderente una noce di burro vegetale e fatto cuocere le cotolette 2 minuti circa per lato fino a doratura, prestate attenzione che non si brucino.

Servitele con un po’ di limone spremuto (questo aiuterà anche l’assorbimento del ferro) e del prezzemolo sminuzzato, più il contorno che preferite.

CITAZIONE DAL LIBRO:

Noi ci domandiamo spesso che cosa sia e dove stia la felicità, perché questo è il solo interrogativo che ci appassiona sempre e per tutta la vita, senza mai darci tregua. Ma a questo interrogativo non dobbiamo dare risposta se siamo saggi e non vogliamo sporcarci con la nostra sporcizia più di quanto ci siamo già sporcati. Io cercavo il cambiamento, l’ignoto, forse anche l’eccitante e l’inquietante, e tutto ciò l’ho trovato nel quartiere di Scherzhauserfeld. Non sono entrato con compassione nel quartiere di Scherzhauserfeld, ho sempre odiato la compassione e, più profondamente che mai, l’autocompassione. Non mi sono mai permesso di avere compassione e ho agito solo per motivi di sopravvivenza. Già sul punto di mettere fine alla mia vita per tutti i motivi, ho avuto l’idea di interrompere la strada che stavo percorrendo già da molti anni con morbosa ottusità e mancanza di fantasia e sulla quale mi avevano messo con la loro tetra ambizione i miei educatori, e allora ho fatto dietrofront e sono tornato indietro di corsa per la Reichenhaller Strasse, in un primo momento sono tornato soltanto indietro, senza sapere dove stessi andando mentre tornavo indietro. Da questo momento in poi mi occorre qualcosa di completamente diverso, ho pensato, non ho pensato altro in quell’agitazione, qualcosa di completamente opposto rispetto a quanto fatto finora […] Qui non c’erano professori di matematica, né professori di latino, né professori di greco, e non c’era neppure un direttore dispotico al cui solo apparire mi sentissi inevitabilmente mozzare il respiro, qui non c’era nessuna istituzione micidiale. Qui non c’era la continua necessità di controllarsi, di chinare il capo, di fingere e di mentire pur di sopravvivere. Qui tutto quello che ero non veniva continuamente esposto agli sguardi critici, già di per sé micidiali, e non si pretendevano continuamente da me cose inaudite, disumane, o meglio la disumanità stessa. Qui non ero ridotto a una macchina per imparare e per pensare, qui potevo essere me stesso.

In un certo sono un burger vegano

Quando mi è venuta l’idea di unire cucina vegana e letteratura, stavo leggendo La fine della strada di John Barth e quindi non mi viene in mente un libro migliore da cui partire.

La fine della strada (pubblicato originariamente nel 1958) è uno dei suoi primissimi romanzi, improntato sul tipico realismo americano ma con un twist totalmente barthiano che già ci fa intuire quale sarà il suo stile di scrittura futuro, più barocco e sperimentale: non per nulla viene considerato uno dei padri della letteratura post-moderna, David Foster Wallace stesso scrisse un testo, Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso, costruito su alcuni personaggi di Lost in the Funhouse, che è una delle opere più famose di Barth.

Il romanzo parla di un triangolo amoroso davvero sui generis in cui un modesto docente delle superiori, Jacob Horner, in cura presso un dottore specializzato nel trattamento di paraplegici (anche se la paraplegia del protagonista non ha niente a che vedere con il fisico), appena trasferitosi in una nuova cittadina, Wicomico, dove ha preso incarico proprio su consiglio del suo Dottore, si trova a fare amicizia con una coppia del posto, i Morgan, sviluppando delle dinamiche che porteranno alla rovina di tutti e tre i personaggi.

L’incipit è già di per sé una dichiarazione di poetica: “In un certo senso io sono Jacob Horner“. Tutto il testo è infatti costruito intorno al tema della scelta e a come le scelte o non-scelte che noi facciamo contribuiscano a costruire la nostra identità, sebbene questo si riveli molto spesso un gioco dettato dal caso (si vedano le curiose terapie prescritte dal Dottore) o dalla necessità e quindi non davvero una scelta per definizione; mentre in alcuni casi aderire troppo a delle (auto)imposizioni dettate dalla razionalità porti comunque a un impasse in cui anche la ragione stessa mostra le sue mancanze. In effetti, tutto il vero, tragico realismo del romanzo è concentrato negli ultimissimi capitoli dove si sfogano tutte le tensioni e i giochi psicologici sviluppatesi nei capitoli precedenti, che hanno invece un tono decisamente più scanzonato e divertente (su alcune pagine si ride proprio di gusto). Inoltre, sebbene il romanzo si preoccupi di mantenere vivo un senso di verosimiglianza, è denso di riferimenti metanarrativi: riflessioni sulla scrittura e su come la scrittura manipoli e in un certo senso tradisca la realtà.

IL PIATTO DEL LIBRO: Parlando di America anni ’50 in una sperduta cittadina di provincia, parlando di sperimentalismo e, perché no, parlando di questioni legate all’identità, a questo libro assocerei senz’altro un bel burger vegano. Io l’ho fatto con la barbabietola e le lenticchie, è incredibile perché la consistenza del composto che si ottiene è simile al macinato della carne e anche il colore e l’aroma dato dalle spezie utilizzate aiuta ad alimentare quest’illusione.

INGREDIENTI per 3 burger:

  • 1 barbabietola rossa grande, cruda
  • 2-3 cucchiai di olio evo
  • 1 cucchiaino di paprika affumicata
  • 1/2 cucchiaino di cumino macinato
  • 25 g di noci sgusciate
  • 85 g lenticchie cotte (io ho usato quelle in scatola per abbreviare i tempi)
  • prezzemolo tritato con aglio q.b.
  • circa mezza cipolla non molto grande tagliata finemente
  • 30 g farina di mais (o pangrattato)
  • 1 cucchiaio di miso
  • 1/2 cucchiaio di concentrato di pomodoro
  • 1 cucchiaino di amido di mais
  • sale e pepe q.b.

N.B. Come strumenti vi serviranno un mixer/robot da cucina e una grattuggia a maglie larghe. Preparate in anticipo la quantità giusta di ingredienti che vi servono e disponeteli in ordine insieme a tutti gli attrezzi di cucina, renderà molto più armonioso l’intero processo.

PROCEDIMENTO:

  1. Tritare le noci finemente e metterle da parte.
  2. Risciacquare le lenticchie sotto l’acqua corrente per eliminare il sale in eccesso.
  3. Pulire la barbabietola e grattuggiarla.
  4. Farla rosolare in padella per due minuti con un filo di olio e sale; aggiungere poi anche il prezzemolo con aglio, una spruzzata di cumino e la paprika affumicata, fare cuocere ancora per 5 minuti finché la maggior parte del liquido della barbabietola non viene assorbito.
  5. In una bowl, mescolare le barbabietole cotte con la farina di mais, le lenticchie, le noci tritate, il cucchiaio di pasta miso, il concentrato di pomodoro e la cipolla.
  6. Aggiungere infine 1 cucchiaino di amido di mais e una generosa spruzzata di pepe nero, mischiare bene il tutto.
  7. Prendere circa 1/3 del composto e frullarlo in un mixer insieme a un filo d’olio e un cucchiaio di acqua per ottenere una consistenza simile a una purea e unirlo poi nuovamente con il resto del miscuglio più “grezzo” e mescolare.
  8. Formare dei burger se ce l’avete anche con l’aiuto di un coppapasta tondo, con queste quantità dovrebbero venire fuori 3 burger dimensione large.
  9. Passateli in padella con olio a fuoco medio-alto 2 minuti per lato e ripassateli infine in forno a 180° per 20 minuti per renderli ancora più compatti.
  10. Infine create il vostro panino con gli ingredienti che preferite. Io ci ho messo semplicemente un po’ di mayo veg, dei pomodori tagliati a fettine e delle foglie di insalata.

CITAZIONE DAL LIBRO:

[…] Questa è l’essenza che gli avete assegnato, almeno temporaneamente, per i vostri scopi, come un romanziere fa di un uomo Il Bello E Giovane Poeta o Il Vecchio Marito Geloso; e anche se sapete bene che nessun reale essere umano è mai stato soltanto un Servizievole Addetto A Un Distributore Di Benzina o un Bello E Giovane Poeta, siete nondimeno preparati a ignorare le affascinanti complessità del vostro uomo – dovete ignorarle, se volete andare avanti con la storia, o far sì che le cose avvengano secondo il piano prestabilito. Ma di ciò si parlerà più avanti, perché è collegato alla mitoterapia. Per ora basti dire che per gran parte del nostro tempo, se non sempre, siamo tutti dispensatori di ruoli, ed è saggio chi si rende conto che il suo dispensatore ruoli è, nel migliore dei casi, un’arbitraria deformazione della personalità degli attori; ma è anche più saggio chi vede, oltre a ciò, che questo arbitrio è probabilmente inevitabile, e sembra a ogni modo necessario se uno vuole raggiungere il fine che desidera.