I miei stupidi intenti di Bernardo Zannoni

Una faina che racconta la storia della propria vita all’interno di un bosco popolato da animali che vivono all’apparenza una vita pressoché antropomorfizzata: le loro tane hanno cucine e camere da letto, ciascun membro della famiglia vanta un nome proprio e ci sono medici e usurai che ci parlano di istituzioni sociali ed economiche rudimentali.

Il protagonista, Archie, è una faina che diventa zoppa dopo avere tentato di rubare delle uova che si trovavano in cima a un alto albero: diventato inutile agli occhi della madre che non prova un minimo di affetto nei confronti del figlio decide di venderlo alla volpe Solomon in cambio di qualche gallina da mangiare. Solomon è un usuraio, grazie alla sua astuzia e a un cane da guardia, Gioele, che sta sempre al suo fianco e si occupa di andare a sistemare eventuali debiti insoluti, si è guadagnato il rispetto e la riverenza di tutti gli animali del bosco. Archie diventa il suo apprendista e dopo un inizio non facile tra i due, Solomon inizia a vedere in lui delle potenzialità e pian piano lo introduce alle sue passioni legate alla sfera dell’essere umano, che da sempre ha giocato un enorme fascino su Solomon. Presto capiamo infatti che la volpe non è un animale come tutti gli altri: ha coscienza del tempo, ha imparato a leggere e a scrivere e crede in Dio.

Il grande monolite intorno a cui gira l’intero romanzo è questa dicotomia tra uomini e animali. Da una parte c’è il regno della sopravvivenza a tutti i costi, dell’istinto, della ferinità; dall’altro quello della consapevolezza del nostro essere transeunti, destinati a condurre una vita breve e piena di dolore in cui le pene possono essere alleviate dalla fede in un Dio di cui in fondo non abbiamo le prove dell’esistenza oppure dal piacere di trasporre le nostre avventure tramite la scrittura e renderle in questo modo eterne.

Archie non sembra in fondo guadagnarci molto da tutto questo bagaglio di conoscenza che Solomon gli lascia in eredità: si configura sì come un essere speciale, ma pur sempre in precario equilibrio tra un mondo di sentimenti tutti umani e un istinto animale che lo porterebbe persino a mangiare i suoi figli per non morire di fame durante il rigido inverno. Resta infine solo, vecchio, orfano ormai di quella beata incoscienza animale sostituita dalla chiara consapevolezza che presto dovrà morire, il suo ultimo lascito al mondo è la scrittura delle sue memorie che lascerà in custodia al suo unico amico rimasto, un istrice che lo ha salvato da un pericoloso incendio, nella speranza che questo gesto renda significativa la sua breve permanenza su questa terra.

Qual è il messaggio ultimo che il romanzo ci vuole dare: forse che sia meglio restare protetti dall’ignoranza e non giungere mai al sapere? Che dovremmo rivedere e accettare con maggiore imperturbabilità certe “violenze” dell’esistenza perché si insinuano in fondo nel semplice cerchio naturale dal quale proveniamo? O al contrario rivalutare l’anelito dell’uomo di giungere al Vero che lo differenzia da qualsiasi altro animale? Resta al lettore decidere. Quel che è certo è che alcuni atteggiamenti umani rivisti in questa chiave animale non possono che farci riflettere, perché li vediamo attraverso una prospettiva inedita e a cui non siamo abituati. Una prospettiva narrativa sicuramente originale, ma non innovativa perché si tratta di un espediente già visto nel panorama letterario: si pensi al celebre racconto di Tolstoj Cholstomér in cui la voce narrante è quella di un cavallo. Si tratta di una pratica artistico-letteraria che i formalisti russi chiamavano straniamento: sottrarre la materia narrata alla convenzionalità della prospettiva canonica e presentarla invece sotto una nuova luce.

La grande ambizione di questo romanzo risulta in ultima analisi anche la sua zavorra: troppi grandi temi messi sul tavolo – Dio, il sapere, il potere taumaturgico della letteratura che rende eterni, la diade uomo-animale – che donano sì una sorta di epicità alla narrazione, ma senza trovare il giusto respiro. C’è qualcosa di potente nell’imperfezione di questo testo, che colpisce, tuttavia il coltello non affonda abbastanza e le riflessioni che scatenano scivolano spesso nell’ingenuità e nello stereotipo anche per via della assoluta aderenza alla tradizione con con la quale vengono raccontati. Un esordio narrativo i cui meriti vanno riconosciuti, ma che non mi ha fatto saltare in piedi dalla gioia. Mi riservo di leggere anche gli altri libri finalisti del Campiello vinto appunto da Zannoni con I miei stupidi intenti.

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Vi lascio una ricetta semplicissima che profuma di bosco perché ha come protagonista i funghi. È la stagione giusta: cucinateli più che potete, tanto più che sono ricchi di triptofano che dà origine alla serotonina, neurotrasmettitore che regola l’umore, l’aggressività, il comportamento sessuale, la sensibilità al dolore, il ciclo sonno-veglia e favorisce la distensione e il rilassamento.

ORZO PERLATO CON FUNGHI SHIITAKE E TEMPEH GRIGLIATO

Ho pulito i funghi Shiitake eliminando il gambo (se li volete freschi io li ho trovati per esempio da Naturasì, secchi li trovate nei maggiori supermercati etnici come per esempio Kathay a Milano). Ho messo l’orzo a cuocere e nel frattempo ho tagliato i funghi a listarelle e li ho fatti cuocere in padella qualche minuto con un po’ di olio e aglio, ho lasciato che si asciugassero e ho aggiunto poi il tempeh sempre tagliato a listarelle (io ho preso ancora una volta da Naturasì quello già grigliato), ho condito con un goccio di salsa di soia e ho lasciato cuocere per altri 10 minuti. Dopo avere unito l’orzo cotto con i funghi e il tempeh, ho aggiunto anche della rucola fresca.