Sono il fratello di XX

Cosa pensare di questo libro?

Non lo so bene. È una raccolta di racconti impalpabile: un sogno, un incubo, qualcosa del genere, con personaggi che insinuano una subdola oscenità nel sacro e viceversa. Sono storie tristi, alcune molto belle, altre a mio parere dimenticabili, in ogni caso tutte connotate da malinconia, eleganza, angoscia e necessità di colmare un grande vuoto esistenziale. Sicuramente non una lettura facile, a tratti quasi disturbante, ma che in ciò lascia un segno, un ricordo. E di ricordi, apparizioni dal passato sono piene le pagine di questo libro, in bilico tra il realismo e il fantastico, dove domina uno stile che gli etologi chiamano Übersprung, come si dice nella nota di copertina, un’oscura frenesia dell’orrore. Si accenna a questo fenomeno nel brevissimo racconto, quasi un flash, chiamato Gatto. Se si osserva un gatto mentre cerca di acchiappare una qualsiasi preda, si potrà notare che a un certo punto, proprio quando sta per raggiungere il suo bersaglio, l’animale si distrae, sposta la sua attenzione su qualcos’altro.

Muta la rotta mentale. È come un momento morto. La stasi. […] Così fa il gatto. Distoglie anche se stesso dall’agonia. Che ha inferto. Non sappiamo perché accada che il gatto volga lo sguardo altrove. Lui lo sa. Chissà, forse è delectatio morosa, questo Übersprung. Il malinconico disfarsi di un legame con la vittima. Übersprung: parola che riguarda anche noi. È il volgersi altrove, passare ad altro, manifestare il gesto del distacco, come un addio. La divagazione dal tema, l’evasione da una parola, e insieme la caccia alle parole, il disfarsene: sono altrettanti modi mentali dello scrivere.

Sempre nelle note di copertina si parla di una certa “calma piatta” che pervade le atmosfere del libro, e io la ritrovo soprattutto nell’inadeguatezza delle capacità comunicative delle creature che popolano queste pagine, come nel racconto Il velo di pizzo nero in cui la protagonista si rende conto di quanto sua madre, ora morta, fosse depressa quando era ancora in vita solo adesso, guardando una sua vecchia foto o ancora in Tropici che parla del disagio di una coppia di fratello e sorella che in realtà non si conoscono per niente; i personaggi si perdono nel non detto, nell’ambiguità delle parole che a volte è meglio non pronunciare ma che in qualche modo si devono pronunciare, in strani silenzi che a volte riescono a trovare sfogo solo in impulsi terribili e cattivi come nei racconti La voliera o L’erede, e questo immergersi nelle pulsioni più nere dell’animo umano pare essere piuttosto congeniale per l’autrice zurighese. La prosa di Fleur Jaeggy è magra e affilata, sono racconti molto cerebrali in cui si dà poco spazio alla sensibilità. Il racconto iniziale che dà il nome alla raccolta – per inciso, il mio preferito – è in questo senso molto eloquente: sono il fratello di XX. Parla di un ragazzo, dei gesti della sua piccola vita sospesa, che come altri personaggi qui dentro ha problemi con il sonno, divorato da una non ben definita angoscia esistenziale, per dormire ha bisogno di sonniferi (una situazione ricorrente nei vari racconti), dialoga con la morte, dice del padre che è una persona molto sensibile e distratta

Tra l’altro vorrei dire subito che le persone sensibili sono distratte. A loro non importa assolutamente niente degli altri. Le persone sensibili, o tanto sensibili da essere dichiarate sensibili, come se fosse una gran qualità, sono insensibili ai dolori degli altri.

e ti lascia con un drammatico, teatrale epilogo.

Un libro che nel complesso mi ha dato l’impressione di essere aristocratico, raffinato, molto triste, quindi mangiateci insieme un tiramisù se non volete andare troppo giù.

Vi lascio la ricetta qui sotto di una versione vegan di questo tanto famoso dolce che ho mutuato dal GialloZafferano, provatela e fatemi sapere cosa ne pensate, era la prima volta che la facevo e secondo me ci possono essere margini di miglioramento nel mix degli ingredienti, ma tutto sommato mi ha soddisfatto. La base è una sorta di pan di Spagna da spezzettare per costruire poi i vari strati, mentre la crema si ottiene con tofu e panna di soia da montare.

INGREDIENTI:

PER LA BASE:

  • 180 g di farina 00
  • 70 g di fecola di patate
  • 12 g di lievito per dolci
  • 140 g di latte di riso a temperatura ambiente
  • 120 g di olio extravergine di oliva
  • 100 g di zucchero di canna fine

PER LA CREMA:

  • 400 g di tofu vellutato
  • 40 g di zucchero di canna fine
  • 1 baccello di vaniglia
  • 300 g di panna di soia da montare

PER LA BAGNA:

  • 250 g di caffé espresso
  • cacao q.b. per guarnire

PROCEDIMENTO:

In una ciotola mescolare lo zucchero con l’olio fino a farlo sciogliere. In un altro recipiente setacciare la farina, il lievito e la fecola. Unire le polveri ai liquidi mescolando con una frusta per non creare grumi. Aggiungere lentamente anche il latte e continuare a mescolare fino a ottenere un composto omogeneo. Ricoprire di carta forno una teglia da 20 cm e fare cuocere l’impasto in forno preriscaldato statico a 180° per 35 minuti.

Intanto frullare il tofu vellutato insieme allo zucchero, incidere il baccello di vaniglia e aggiungere i semi alla crema. A parte montare la panna e aggiungerla poi molto delicatamente al resto della crema dall’alto in basso per non smontarla.

Una volta che la base sarà fredda ricavarne delle forme adatte al contenuto del recipiente dove metterete il vostro tiramisù e iniziate a comporre gli strati: base – caffè – crema e così via, spolverando infine la superficie con del cacao amaro. Per la crema potete aiutarvi con un sac à poche. Prima di servire lasciare riposare in frigorifero almeno un’ora.

Buchi neri

Chi non ha mai fantasticato di essere l’unico essere umano rimasto sulla Terra? Cosa faresti, come reagiresti? Come ti sentiresti? Guido Morselli nel 1973 provò a drammatizzare questa situazione scrivendo Dissipatio H. G. ovvero l‘evaporazione del genere umano, nientedimeno.

Questo romanzo potrebbe essere inserito nel genere fantascientifico, apocalittico, filosofico, o forse meglio non inserirlo in nessuna categoria, è un ammasso intellettuale di detriti galleggianti. Le circostanze in cui questo romanzo venne scritto sono abbastanza emblematiche, questo perché Morselli si suicidò pochi mesi dopo la stesura (Dissipatio fu pubblicato postumo nel ’77) e in apertura del libro noi troviamo il protagonista che, spinto da una certa repulsione verso il resto del genere umano, ha deciso di porre fine alla propria vita annegandosi in uno strano laghetto in fondo a una caverna, in montagna. Desiste però dal suo intento, il suo corpo sembra non rispondere al suo volere, e decide quindi di lasciare perdere e tornare nella civiltà senonché ad aspettarlo trova solo un mucchio di macchine fantasma, scrivanie senza personale, beni abbandonati. Il giorno dopo si sveglia per capire che intorno a lui non ci sono più essere umani, ma nessuna prova a dimostrarlo, nessun cadavere, come se questi si fossero dispersi nell’aria, solo oggetti abbandonati che in questa solitudine estrema perdono la loro connotazione originale per assumere nuovi significati, come all’interno di un quadro di De Chirico, affascinante e inquietante al tempo stesso.

Tra il suicido e il continuare a vivere non sembra esserci una terza opzione, ebbene Dissipatio H.G. è l’esplorazione di questa non-possibilità. Il protagonista si muove in spazi d’invenzione, ma che sembrano richiamare la Svizzera e dintorni, e vive in una tenuta isolata in una valle di montagna molto simile alla cascina reale dell’autore a Gavirate, ai piedi delle Alpi nel nord della Lombardia (l’autobiografismo nella sua opera è un elemento sempre presente). Se l’avversione verso gli uomini aveva guidato la decisione del protagonista di mettere fine alla propria vita, ora si ritrova effettivamente e completamente solo e si muove in questa terra desolata riempita solo da un silenzio surreale, una sorta di macabro reminder stai attento a quello che desideri. La sopravvivenza in una realtà del genere si rivela straziante, e il protagonista visita aeroporti, hotel, fa chiamate a numeri fantasma e da nessuna parte riesce a trovare anche solo un indizio di quello che è successo e non sa se considerarsi il fortunato eletto oppure se questo possa essere di fatto il risultato del contemplato suicidio. Nessuno è lì per dargli la risposta.

Rileggere un libro come Dissipatio in questi giorni, dopo quello che abbiamo vissuto con il Covid negli ultimi due anni, fa riflettere. Gli spazi deprivati della presenza umana, gli oggetti che assumono una concretezza metafisica, ma non solo, anche la natura che torna a vivere, che si riappropria di ciò che le era stato tolto. Quei mesi di lockdown che abbiamo vissuto sono serviti a diminuire l’inquinamento, alcuni animali si sono ripresi spazi perduti e noi in generale abbiamo iniziato ad apprezzare di più il contatto con la natura. Durato tutto troppo poco, ma anche in Dissipatio si pone l’enfasi su questo aspetto. In assenza di rumore e inquinamento ambientale, gli animali cominciano a popolare gli ex spazi umani, il canto degli uccelli diventa più forte e una certa pace generale prende il sopravvento, la società com’era sembra solo una vecchia, cattiva abitudine.

Insieme a tutto il resto, forse che Morselli fu anche uno scrittore ecologista ante litteram? Forse. Quel che è certo è che un libro del genere può essere letto sotto tanti punti di vista, compreso quello di una evidente nota di suicidio da parte dell’autore, ma non può esimerci dal ripensare alle nostre relazioni con gli altri, a come viviamo nel mondo e come questo potrebbe essere diverso.

Un lungo panico, in principio. E poi, ma tramontata subito, incredulità, e poi di nuovo paura. Adesso l’adattamento. Rassegnazione? Direi proprio accettazione. Con intervalli di proterva ilarità, e di feroce sollievo.

IL PIATTO DEL LIBRO: quando ci si ritrova di fronte a libri di questo calibro, sarebbe davvero magico avere l’autore a tua disposizione per chiedergli, ma cosa avevi in mente quando hai pensato a questo romanzo? Qual è stata la spinta iniziale? Chiaramente non è possibile, quindi si lascia lo spazio alla propria interpretazione. Ci sono delle situazioni, soprattutto quando sono in città e mi trovo imbottigliata nel traffico o cammino per le vie del centro così stracolme di gente, in cui tutto quello che vorrei in quei momenti è un gigantesco buco nero che risucchi tutto l’eccesso che sta su questo pianeta e restituisca il verde, la pace e la solitudine. È questo lo spunto che mi ha portato a creare il piatto che vedete qui sotto, vellutata di lenticchie nere con fiammiferi di foglie di porro.

INGREDIENTI PER 2 PERSONE:

  • 200 g di lenticchie nere
  • 1 pezzo di porro (gambo bianco)
  • foglie di porro tagliate a listarelle q.b.
  • 50 g di carota tritata
  • 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro
  • 1 pizzico di cannella
  • 1 pizzico di noce moscata
  • acqua calda, 3-4 bicchieri
  • olio evo q.b.
  • sale e pepe

Mettere a mollo le lenticchie per un’ora.

In una pentola capiente mettere a soffriggere la carota e il porro con due cucchiai d’olio, dopo qualche minuto aggiungere anche il concentrato di pomodoro (se la verdura rischia di bruciarsi aggiungere un goccio d’acqua). A quel punto, scolare le lenticchie e metterle nella pentola, mescolare bene e aggiungere la cannella e la noce moscata. Versare l’acqua, portare a bollore e abbassare poi la fiamma coprendo con un coperchio. Cuocere finché le lenticchie si saranno ammorbidite, ci vorranno circa 40 minuti, arrivati verso fine cottura salate e a seconda della densità che volete ottenere potete aggiungere altra acqua oppure cuocere a fiamma più alta per addensare ulteriormente i liquidi.

Togliere dal fuoco e passare tutto con il minipimmer per ottenere la crema. Io l’ho guarnita con alcune foglie di porro tagliate a listarelle e fatte friggere nell’olio.

CITAZIONE DAL LIBRO:

A mattina appena fatta, cerco la mia utilitaria, stavolta non ho inibizioni, e la ritrovo, con più una sorpresa che mi pare lieto auspicio: uno stambecco piccino steso fra le ruote, addormentato al riparo della pioggia. La madre, e altri adulti, quattro o cinque, pascolano da presso, sul prato del Kursaal. Non avevo mai incontrato un gruppo così folto di queste bestie, nemmeno in alta montagna. A Klaus, dove la mia valle termina nella pianura, costeggio uno stabilimento. Sulla cinta una scritta cubitale: I nostri detersivi sono biodegradabili al 93%. – Nel frattempo, fabbricanti e clienti sono stati biodegradati al 100%. Gli stambecchi se ne accorgono e ne approfittano.

Come un amuleto

Quando lo provi una volta poi è difficile uscirne.

Sto parlando di Roberto Bolaño.

Chi ha letto i Detective selvaggi conosce già Auxilio Lacouture perché la sua storia viene a galla insieme a quella di tanti altri nella seconda parte del libro ed è proprio lei la protagonista di Amuleto, breve romanzo dell’autore cileno, una sorta di spin-off.

Le vicende prendono avvio da un avvenimento storico, il massacro di Tlatelolco avvenuto nell’ottobre del 1968 a Città del Messico, che fu preceduto da mesi di inquietudine politica per via delle proteste studentesche che in quell’anno scossero quasi tutto il mondo. Gli studenti di Città del Messico pensavano di catalizzare l’attenzione su di loro per via della concentrazione mediatica che in quel momento c’era sulla città che di lì a poco avrebbe ospitato i giochi olimpici. Pochi mesi prima del massacro dei manifestanti in Piazza delle tre culture, il presidente messicano di allora, Gustavo Díaz Ordaz, ordinò all’esercito di occupare il campus della UNAM violando così l’autonomia universitaria. Molti studenti vennero picchiati e arrestati indiscriminatamente anche se in quest’occasione non ci fu nessuna vittima.

In questo contesto si inserisce la storia di Auxilio Lacouture, donna dai tratti indefiniti, adulta ma bambina, uruguaiana di Montevideo ma senza vere radici, amica dei giovani poeti messicani di cui si definisce la Madre in maniera quasi ossessiva, coi quali condivide lo stesso stile di vita bohémien fatto di notti infinite tra bar e circoli letterari dove si beve e si discute, senza una fissa dimora, senza un vero impiego se non questi lavoretti nella facoltà di Lettere e Filosofia, dove tutti sembrano conoscerla e volerle bene. Quando i reparti anti sommossa entrano nell’Università nel settembre del ’68, Auxilio si trova proprio lì, o meglio nel bagno delle donne al quarto piano della facoltà di Lettere e Filosofia. È chiusa nel bagno, con la gonna abbassata e sta leggendo le poesie di Pedro Garfias, un soldato entra per un momento nel bagno, si guarda allo specchio, ma non si accorge della sua presenza. Allora lei decide di resistere, di rimanere in università, lì chiusa nel bagno, senza cibo o altro se non la compagnia di qualche poesia, per dieci giorni, la follia che la rincorre ma lei che non vuole farsi prendere, vuole resistere.

La resistenza nei bagni dell’università è come se fosse un viaggio iniziatico dal quale Auxilio ne esce con connotati diversi. Non appena si inizia la lettura si capisce subito di avere a che fare con un personaggio strambo, fragile, bizzarro coi suoi capelli alla Principe Valiant e che parla mettendosi sempre la mano davanti alla bocca per non mostrare la sua assenza di denti, dopo l’assalto all’Università la sua stranezza assume quasi una statura mitologica, Auxilio una donna senza tempo e senza età che sorvola sulla storia, come nella grandiosa immagine profetica che chiude il libro in cui una massa di giovani sembra marciare insieme verso l’abisso intonando un canto che parla di guerra e delle imprese eroiche di un’intera generazioni di giovani latinoamericani sacrificati, un canto che è come un amuleto.

La scrittura lineare di Bolaño ha i tratti della poesia, il romanzo in sé il carattere di un sogno, in cui diversi scenari si susseguono in maniera caotica come succede appunto nei sogni. Più che un ricordo nitido resta una sensazione, ed è quella giusta.

IL PIATTO DEL LIBRO: Avete presente i fagioli neri che avevo utilizzato per fare quelle buonissime enchiladas? Ecco, ne erano avanzati un po’ e li ho riutilizzati per preparare questa volta delle quesadillas, un altro piatto tipico del Messico. Sono fatte con le piadine messicane, le tortillas di mais, e con ripieni di vario tipo in cui però non può mai mancare il queso, il formaggio. Io ho usato un queso un po’ particolare chiaramente, a base di lenticchie, che potete vedere nella foto che mi metto sotto. Trovate questo tipo di formaggi nei supermercati bio tipo NaturaSì. Il ripieno invece è a base di guacamole, funghi, fagioli neri e mais.

INGREDIENTI PER 2/3 PERSONE:

  • tortillas di mais
  • 1 avocado maturo
  • succo di mezzo limone (o lime)
  • pepe di Cayenna
  • fagioli neri, 200 g
  • 1 scatoletta di mais
  • funghi champignon, 1 confezione
  • 1 spicchio d’aglio
  • formaggio veg da grattuggiare

Se usate i fagioli secchi, dovrete metterli a bagno dalla notte precedente e cuocerli successivamente in pentola a pressione per 25 minuti circa a partire dal fischio. Vi ricordo che se usate un’alga kombu durante la cottura i fagioli risulteranno più morbidi e facilmente digeribili.

Nel frattempo preparate la salsa guacamole tagliando un avocado maturo in tanti piccoli pezzi e schiacciandolo poi con una forchetta. Aggiungete il succo di mezzo limone, mezzo cucchiaino di pepe di Cayenna che darà carattere alla salsa (e ha tra l’altro una quantità di proprietà benefiche per la salute), sale e pepe q.b. e mescolate.

In una padella rosolate uno spicchio d’aglio con un po’ di olio evo e cuocete i funghi affettati. Fate perdere tutta l’eventuale acqua in eccesso, salate e pepate. Aggiungete poi anche i fagioli e il mais e fate saltare per qualche minuto. Grattugiate anche il formaggio veg e tenete da parte.

A quel punto, fate scaldare a secco in un’ampia padella le tortillas da entrambi i lati. Adagiate il ripieno su una metà, spalmate sopra la salsa e infine il formaggio grattugiato, chiudete la tortilla e fate cuocere nuovamente da entrambi i lati a fuoco vivace giusto il tempo per rendere dorata la piadina. Togliete dal fuoco e tagliatela a metà.

CITAZIONE DAL LIBRO:

Se non sono diventata pazza è perché non ho mai perso il senso dell’umorismo. Ridevo delle mie gonne, dei miei pantaloni a tubo, delle mie calze a righe, dei miei calzini bianchi, del mio taglio alla principe Valiant coi capelli ogni giorno meno biondi e più grigi, dei miei occhi che scrutavano la notte di Città del Messico, delle mie orecchie rosee che ascoltavano le storie dell’universo, chi saliva e chi scendeva, chi era bellamente ignorato, chi veniva messo in coda, chi leccava i piedi a chi, le adulazioni, i falsi meriti, i letti tremanti che si smontavano e poi si rimontavano sotto i cieli sconvolti di Città del Messico, quel cielo che conoscevo così bene, quel cielo convulso e irraggiungibile come una pentola atzeca sotto al quale io mi muovevo felice e contenta, con tutti i poeti del Messico e con Arturito Belano che aveva diciassette, diciotto anni, e cresceva sotto il mio sguardo. Tutti crescevano protetti dal mio sguardo! Cioè, tutti crescevano nelle intemperie messicane, nelle intemperie latino-americane, che sono le intemperie più grandi perché sono le più divise e le più scisse. E il mio sguardo luccicava come la luna in quelle intemperie e si posava sulle statue, sulle figure intimorite, sui crocchi di ombre, sui contorni che non avevano nulla eccetto l’utopia della parola, una parola, d’altra parte, abbastanza miserabile. Miserabile? Sì, ammettiamolo, abbastanza miserabile. E io stavo lì con loro perché anch’io non avevo nulla, eccetto la mia memoria.

Cena tra amici con Bolaño

Leggi I detective selvaggi e se sei come me uno che lavora a tempo pieno (anzi pienissimo), alla lettura non è che puoi dedicare più di un tot di ore al giorno. I detective selvaggi sono 688 pagine, quindi leggerlo quando si ha un po’ di tempo significa portarsi appresso il malloppo per un bel po’ di giorni, dentro e fuori le borse, dentro e fuori i mezzi pubblici, sulle panchine sporche nella pausa pranzo, alla luce tenue di una lampada quando rubi un po’ di ore al sonno, e alla fine sembra che il momento della giornata in cui ti riconnetti con Ulises Lima, Arturo Belano e tutti gli altri realvisceralisti sia l’unico che davvero aspettavi. Poi lo finisci e ti chiedi con un po’ di stupore: ma cosa ho appena letto?

Il mio maestro di storia del teatro russo diceva sempre che bisognava leggere Anna Karenina a diverse età della propria vita perché è un romanzo complesso che particolarmente si presta a regalarti diverse e nuove visioni a seconda del tuo grado di maturazione e I detective selvaggi mi ha restituito una sensazione simile, nel senso che prendendolo in mano una decina di anni fa ci avrei letto sicuramente delle cose che adesso ho letto diversamente. Probabilmente capita per quasi tutti i libri, ma alcuni si prestano più di altri.

I detective selvaggi è il libro dei vent’anni, della vita bohemiene e di quello che succede dopo, è l’epopea di un gruppo di poeti messicani guidati dai due che ho citato sopra che stanno tentando di imporre una nuova corrente d’avanguardia, il realvisceralismo, a Città del Messico. Si incontrano, si portano sempre appresso libri, fanno sesso, bevono molto, vanno ai convegni di poesia, parlano fino a notte fonda e girano per le strade di questo DF, una città che nelle sue descrizioni unisce l’etereo e il brutale, la fogna e l’altitudine. I detective selvaggi è il racconto della sconfitta di una generazione di ragazzi che pensava di cambiare il mondo mettendo insieme le parole in maniera diversa e invece si ritrova semplicemente impelagata nei soliti problemi del diventare adulti e sopraffatta dalla politica, un mosaico di umanità. Un testo torrenziale, sfuggente, che si manifesta con la potenza di un incubo o di un sogno, come gran parte della letteratura sudamericana che mi è capitato di leggere finora.

Il romanzo è articolato in tre sezioni principali: nella prima ambientata negli ultimi mesi del 1975 seguiamo le vicende dei realvisceralisti narrate in prima persona da Juan García Madero, un ragazzo iscritto a giurisprudenza che viene però facilmente distratto dai suoi doveri nel momento in cui entra a far parte della cerchia di questi poeti; la seconda, la più sostanziosa, prende un arco temporale molto ampio che dal ’75 si estende fino alla seconda meta degli anni ’90, qui le esperienze vissute da Lima e Belano, protagonisti prismatici del romanzo, si moltiplicano nel racconto di tanti altri personaggi che in qualche modo sono venuti a contatto con loro portando alla luce nuovi episodi delle loro esperienze erranti; la terza e ultima riprende da dove era terminata la prima, l’ultimo giorno del 1975, per portarci nei deserti del Sonora, dove Lima, Belano e García Madero sono fuggiti con Lupe per scappare da una banda di criminali e soprattutto per recuperare le tracce di Cesárea Tinajero, quella che sembra essere la madre della poesia realvisceralista.

Leggendo si ha la sensazione che un sottile filo di follia tenga insieme una pagina con l’altra, si ha l’idea di avere tra le mani un romanzo in cui lentamente tutto va in malora, Lima e Belano ne vengono fuori come due personaggi straordinari e straordinariamente inconcludenti, vittime delle loro visioni profetiche. Ma nonostante questo effetto di disintegrazione inarrestabile, il gioco che sottende il testo e il piacere dell’audacia formale di Bolaño rendono la lettura estremamente piacevole in ogni momento.

Il tessuto intertestuale è molto ricco, le cose che più saltano all’occhio sono i riferimenti all’Ulisse di Joyce e all’Odissea di Omero nel nome di Ulises Lima e nel peregrinare infinito dei due protagonisti. I detective selvaggi è in effetti il libro che ti fa perdere, che a un certo punto ti spinge fino a dei villaggi africani devastati dalla guerra dove il punto è spingersi oltre il significato di qualsiasi esperienza perché forse il problema è che quel significato non c’è. È il libro dei deserti del Sonora dove vibra una spiritualità tutta diversa, dove la vita diventa più metafisica ed è il libro delle immense notti del DF, dove non sono mai stata, e ora non vedo l’ora di andarci.

Se mi chiedessero perché leggerlo, risponderei: perché alla fine ti apre una finestra.

IL PIATTO DEL LIBRO: per questo libro, oltre che volare in Messico con i sapori, volevo fare qualcosa che si prestasse a essere consumato in una cena tra amici perché è qualcosa che ben si adatta all’atmosfera del romanzo. Ho pensato a un piatto di enchiladas preparate con un ripieno di fagioli neri e una gustosa salsina di anacardi in sostituzione del formaggio fuso.

INGREDIENTI per 2-3 persone:

  • 150 g di fagioli neri (io ho usato quelli secchi, messi in ammollo la sera prima e poi cotti con la pentola a pressione per 30 minuti)
  • 100 g di riso rosso cotto
  • 2 patate dolci medio-piccole, tagliate in piccoli pezzi
  • 1 peperone, tagliato a cubetti
  • 1 cipolla piccola, tagliata sottile
  • 1 spicchio d’aglio, tritato
  • 7 tortillas (io le ho usate con farina integrale)
  • salsa chilli
  • 2 cucchiai olio evo
  • pepe fresco macinato
  • erba cipollina / prezzemolo fresco tritato
  • 1 avocado tagliato a pezzetti per il topping
  • formaggio vegetale agli anacardi (per quello ricetta a parte)

MEAL PREP:

Armatevi di un po’ di pazienza perché è un piatto molto semplice, ma che richiede un po’ di tempo, soprattutto se non avete preparato nulla in anticipo. Quindi per ottimizzare i tempi, potete iniziare a cuocere i fagioli e il riso anche il giorno prima, oppure usare i legumi in scatola. Stessa cosa anche per il “formaggio” di anacardi. In questo modo non vi resterà che tagliare e cuocere le verdure e poi assemblare tutti gli ingredienti per creare le enchiladas. Se usate la pentola a pressione per cuocere i fagioli, 30 minuti dal fischio e sono pronti, potete aggiungere l’alga kombu in cottura che aiuta nel rendere i legumi più facilmente digeribili (soprattutto per chi non è tanto abituato a mangiarli). Per quanto riguarda la salsa, potete trovare tante ricette per farla in casa, che è sicuramente la scelta migliore, ma non avendo tanto tempo io l’ho comprata già pronta da Kathay a Milano (potete vedere nelle foto sotto quella da me usata).

  1. Mettete le patate dolci tagliate a pezzetti in una padella grande, a fuoco medio, con due cucchiai di olio. Condite con una generosa manciata di sale e pepe.
  2. Cuocete per circa 5 minuti e aggiungete l’aglio tritato.
  3. Aggiungete il peperone tagliato a strisce sottili, la cipolla, i fagioli e mescolate.
  4. Cuocete ancora per qualche minuto, magari con coperchio, finché le patate saranno belle tenere.
  5. Aggiungete anche il riso e un paio di cucchiai di salsa, mescolate per amalgamare bene il tutto e togliete dal fuoco.
  6. Preriscaldate il forno a 180°.
  7. Ricoprite con uno strato di salsa il fondo di una pirofila.
  8. Mettete un paio di cucchiaiate di ripieno sul bordo di una tortilla e aggiungete anche un po’ di formaggio vegetale.
  9. Richiudete la tortilla e riponetela con i bordi verso il basso all’interno della pirofila. Ripetete l’operazione fino a riempimento.
  10. Ricoprite le tortillas con la salsa rimanente e aggiungete anche il formaggio vegetale che rimane.
  11. Infornare e cuocere per 20 minuti a 180°.
  12. Per finire, aggiungere l’erba cipollina o il prezzemolo o il coriandolo a seconda delle vostre preferenze e l’avocado a pezzi.

Nota: per preparare il formaggio vegetale agli anacardi, ho preso 125 g di anacardi al naturale e li ho ricoperti per almeno 10 minuti con acqua bollente (questo è il metodo veloce, altrimenti dovresti lasciarli in ammollo per una notte intera), li ho scolati e li ho messi in un frullatore insieme al succo di mezzo limone, 60 g di acqua, sale, paprika affumicata ed erba cipollina fino ad ottenere una crema omogenea.

CITAZIONE DAL LIBRO:

Belano, gli dissi, il nocciolo della questione è sapere se il male (o il delitto o il crimine o come vuole chiamarlo) è casuale o causale. Se è causale possiamo lottare contro di lui, è difficile da sconfiggere ma c’è una possibilità, più o meno come fra due pugili dello stesso peso. Se è casuale, al contrario, siamo fregati. Che Dio, se esiste, abbia pietà di noi. È a questo che si riduce tutto.

Nella direzione opposta

Thomas Bernhard è uno dei più grandi scrittori europei del Novecento. Si è scavato il suo spazio nel panorama letterario creando uno stile unico e micidiale. Lessi per primo Il soccombente, mi bastarono poche righe per rimanere folgorata e da lì in poi divenne uno dei miei rifugi di intelligenza preferiti, uno dei ripari sicuri a cui tornare nei momenti di tempesta. E laddove si potrebbe leggere una letteratura pessimista, esageratamente negativa e polemica, io ci ho sempre visto la massima lucidità, lo sforzo della razionalità che scala le insensatezze dell’esistenza e con difficoltà arriva in cima per godere di un panorama che regala una visione a 360°.

Come dissi già una volta, si potrebbe dire, con qualche margine di generalizzazione, che Bernhard nella sua vita abbia scritto un solo lungo libro: la sua penna è immediatamente riconoscibile grazie a uno stile in cui il come è perfettamente a servizio del cosa – anche se a suo dire il come lo interessò sempre più del cosa – e in effetti le tematiche che troviamo nei suoi romanzi sono ricorrenti. Ne cito alcune: l’ottusità delle convenzioni sociali, le difficoltà della vita familiare, pensieri sulla morte, la malattia e il suicidio, raccontate per lo più tramite monologhi, flussi di pensiero ininterrotti in cui il pensiero si dirama, si flette, salta ostacoli, ripiega su se stesso, si scontra con l’ossessione della ripetitività, dell’esagerazione per poi lanciarsi a momenti in libere corse. Tutti concetti che, a dire la verità, ne nascondono solo uno e fondamentale: la vita come teatro.

Ultimamente ho letto La cantina, romanzo abbastanza breve che fa parte dei cinque che insieme a L’origine – un accennoIl respiro – una decisioneIl freddo – una segregazione e per ultimo Un bambino compongono la sua autobiografia. Ne La cantina in particolare parla di un momento decisivo nella sua adolescenza quando scelse di abbandonare il ginnasio per andare nella direzione opposta. Direzione opposta in tutti i sensi, metaforicamente e letteralmente, lasciando quindi il ginnasio in uno dei quartieri più posh di Salisburgo per andare a fare l’apprendista in una cantina di alimentari nella parte più malfamata e degradata della città, decisione che significò per lui la sopravvivenza, la migliore che potesse prendere.

Ragioni per cui dovreste leggere questo libro:

  • se volete essere storditi (positivamente, si capisce);
  • se in un libro vi interessa più la fattura della trama;
  • se ritenete che la consapevolezza nella vita sia un bene prezioso e non un mostro da cui scappare;
  • se siete a un punto di svolta nella vostra vita e avete bisogno di andare nella direzione opposta;
  • se volete ridere, perché l’arte dell’esagerazione ha in sé il germe del comico;
  • se vi fanno passare per misantropi, ma poi si sa che non è questo il punto;
  • se odiate gli austriaci (no scherzo, questo non prendetelo davvero in considerazione).

IL PIATTO DEL LIBRO: A proposito, si sa che Bernhard molto spesso nei suoi libri non la tocca leggera con l’Austria, il suo paese, agli austriaci gliene ha dette di tutti i colori, quindi mi sembra giusto proseguire sulla sua linea, spingere le cose fino all’estremo e creare per questo secondo appuntamento di settembre proprio un piatto tipicamente austriaco (viennese) per il nostro Bernhard: la cotoletta, ma nella direzione opposta: vegana! La versione che vi propongo qui è mutuata da diverse cose trovate sul web, ma rifatta con il mix di ingredienti che ho trovato più di mio gusto. Potete accompagnarla con il contorno che volete, ma io sono andata proprio sul classico.

INGREDIENTI per 4 persone:

  • 150 g farina di ceci
  • 100 ml acqua temperatura ambiente
  • 1 cucchiaino di sale
  • 1 pizzico di paprika affumicata
  • 1 cucchiaio fecola di patate
  • 1 cucchiaio di olio evo
  • 1 cucchiaino di senape
  • farina di mais q.b. per impanare alla fine
  • limone e prezzemolo per guarnire
  • burro vegetale q.b.

PROCEDIMENTO:

Unite in una ciotola tutti gli ingredienti tenendo per ultimi olio e acqua, mescolate fino a ottenere una pastella morbida ma abbastanza compatta e lasciate riposare per almeno mezz’ora/un’ora.

Versate il pangrattato in una ciotola, prelevate un cucchiaio generoso di pastella e passatela nel pangrattato schiacciandola poi con le mani per darle la forma di una cotoletta.

Nella versione originale, la Wiener schnitzel viene fatta cuocere nel butterschmalz (burro chiarificato), quindi anziché usare l’olio, ho fatto sciogliere in una padella antiaderente una noce di burro vegetale e fatto cuocere le cotolette 2 minuti circa per lato fino a doratura, prestate attenzione che non si brucino.

Servitele con un po’ di limone spremuto (questo aiuterà anche l’assorbimento del ferro) e del prezzemolo sminuzzato, più il contorno che preferite.

CITAZIONE DAL LIBRO:

Noi ci domandiamo spesso che cosa sia e dove stia la felicità, perché questo è il solo interrogativo che ci appassiona sempre e per tutta la vita, senza mai darci tregua. Ma a questo interrogativo non dobbiamo dare risposta se siamo saggi e non vogliamo sporcarci con la nostra sporcizia più di quanto ci siamo già sporcati. Io cercavo il cambiamento, l’ignoto, forse anche l’eccitante e l’inquietante, e tutto ciò l’ho trovato nel quartiere di Scherzhauserfeld. Non sono entrato con compassione nel quartiere di Scherzhauserfeld, ho sempre odiato la compassione e, più profondamente che mai, l’autocompassione. Non mi sono mai permesso di avere compassione e ho agito solo per motivi di sopravvivenza. Già sul punto di mettere fine alla mia vita per tutti i motivi, ho avuto l’idea di interrompere la strada che stavo percorrendo già da molti anni con morbosa ottusità e mancanza di fantasia e sulla quale mi avevano messo con la loro tetra ambizione i miei educatori, e allora ho fatto dietrofront e sono tornato indietro di corsa per la Reichenhaller Strasse, in un primo momento sono tornato soltanto indietro, senza sapere dove stessi andando mentre tornavo indietro. Da questo momento in poi mi occorre qualcosa di completamente diverso, ho pensato, non ho pensato altro in quell’agitazione, qualcosa di completamente opposto rispetto a quanto fatto finora […] Qui non c’erano professori di matematica, né professori di latino, né professori di greco, e non c’era neppure un direttore dispotico al cui solo apparire mi sentissi inevitabilmente mozzare il respiro, qui non c’era nessuna istituzione micidiale. Qui non c’era la continua necessità di controllarsi, di chinare il capo, di fingere e di mentire pur di sopravvivere. Qui tutto quello che ero non veniva continuamente esposto agli sguardi critici, già di per sé micidiali, e non si pretendevano continuamente da me cose inaudite, disumane, o meglio la disumanità stessa. Qui non ero ridotto a una macchina per imparare e per pensare, qui potevo essere me stesso.