I signori del cibo. Il reportage di Stefano Liberti.

Così la soia – originaria della Cina – viene prodotta in climi tropicali dall’altra parte del mondo per alimentare maiali in Cina che a loro volta sono originari di un’altra zona.

Si potrebbe riassumere il contenuto di questo libro con una breve, semplice frase che cela dietro di sé un labirinto di complicazioni da capogiro: il capitalismo, molto spesso, fa schifo.

Si tratta di un reportage, dal punto di vista narrativo scorrevole, ma che naturalmente porta con sé molti dati, numeri, testimonianze di persone coinvolte a tutto tondo in queste faccende da una parte e l’altra della barricata, e credo sia inutile e ridondante farvi un riassunto o riportarvi pari pari quello che trovate in queste pagine, l’unica cosa sensata che mi viene da dirvi è consigliare di leggerlo. Se siete ancora consumatori leggeri che quando vanno a fare la spesa viaggiano per le corsie del supermercato senza mai pensare a cosa ci sia dietro a quello che mettono nel carrello, avrete sicuramente tanto su cui riflettere; se invece questi temi sono già il vostro pane quotidiano, un mattoncino di conoscenza in più sull’argomento non vi guasterà di certo.

Parliamo di cibo, certo, ma sono quattro in particolare le macro-aree che Stefano Liberti va a scandagliare nel suo libro che corrispondono ai quattro capitoli principali: gli allevamenti intensivi di maiali in America e il loro collegamento con la Cina; le piantagioni di soia in Brasile; la pesca del tonno e il commercio del pomodoro e il suo bizzarro itinerario tra Cina, Europa e Africa.

Ciò che emerge dal racconto di queste quattro food industries apparentemente molto diverse tra loro è in realtà uno schema che ritorna sempre uguale. La globalizzazione e un capitalismo ormai fuori controllo hanno innestato dei meccanismi che hanno distrutto vecchi equilibri lavorativi e che sono totalmente dominati solo dalla logica del profitto senza più alcun rispetto verso la cura del territorio, il benessere degli animali e lo sfruttamento di moltissimi lavoratori di queste filiere produttive. E perché l’industria del cibo è tanto coinvolta in questi processi? Semplice, siamo quasi 8 miliardi di esseri umani sulla Terra e si tratta di un trend in crescita per cui qualcosa di cui avremo sempre bisogno – tradotto in termini finanziari: qualcosa che potrà sempre generare profitto – è il cibo.

Dopo il 2007-08, con lo scoppio della bolla immobiliare, l’industria del cibo ha visto l’entrata in scena di attori che con il cibo in sé non avevano nulla a che fare: banche d’affari e fondi finanziari hanno iniziato a puntare sulla produzione e commercializzazione di beni alimentari alla ricerca di investimenti con un ritorno sicuro. In paesi come la Cina, che ospita una gran fetta della popolazione mondiale, i consumi stanno cambiando, le persone vogliono mangiare sempre più carne, di contro le terre su cui produrre gli alimenti destinati all’alimentazione umana e ai mangimi per animali non sono infinite. E allora chi ha la leva della produzione può garantirsi ingenti ritorni, in tempi di penuria. Che si tratti di carne di maiale, di tonni pescati o campi di soia, il risultato è sempre lo stesso. Come scrive Liberti:

L’inedita alleanza tra grandi gruppi alimentari e fondi finanziari ha portato allo sviluppo di quelle che definisco aziende-locusta: gruppi interessati a produrre su larga scala al minor costo possibile, che stabiliscono con l’ambiente e con i mezzi di produzione – la terra, l’acqua, gli animali d’allevamento – un rapporto puramente estrattivo. Tali ditte hanno come unico orizzonte il profitto, nel più breve tempo possibile. E sfruttano le risorse in modo intensivo, fino al loro totale dissipamento: esaurite le capacità di un luogo, passano oltre, proprio come uno sciame di locuste.

Dove può portarci tutto questo? Capirete da soli che gli orizzonti futuri non appaiono tanto rosei. L’incarnazione perfetta di quale sia la logica che sta dietro gli attuali mercati globali è il Makola Market di Accra, la capitale del Ghana in Africa, dove si trovano confezioni di cibo provenienti letteralmente dai quattro angoli del pianeta, nulla di locale, nulla di fresco, tutto viene da decine di migliaia di chilometri di distanza: “una specie di showroom del dominio delle aziende-locusta sull’industria del cibo”, nelle parole di Liberti.

Chi ci perde non sono solo i maiali trattati come cose che paradossalmente ricordano il loro status di esseri viventi tramite le deiezioni che deturpano il territorio e le falde acquifere delle zone attorno agli allevamenti dove si trovano, non sono solo i tonni pescati in così grande quantità che stanno scomparendo dagli oceani o piccoli produttori africani di pomodori che sono scappati dal loro paese perché il commercio è fallito soppiantato da nuove logiche di mercato più redditizie che si ritrovano a vivere in una masseria-ghetto in Puglia dove raccolgono – ironia della sorte – pomodori per venticinque euro al giorno d’estate a fronte di dieci ore di lavoro, se proprio vogliamo guardare la cosa da una prospettiva più egoistica a perderci è anche il consumatore finale, costretto a consumare del cibo che ha ormai un sapore standard uguale in tutto il mondo, prodotto in modo industriale e a costi infimi.

Di soluzioni pronte e facili non ne abbiamo, e neanche questo libro ce ne dà. Quello che fa è però mettere in luce come in mezzo a tutto questo ci siano ancora piccole realtà che si oppongono a questa deriva del capitalismo e provano a fare la differenza, può sembrare la lotta di Davide contro Golia, senza speranze, ma che è ora più che mai necessaria. Del resto le risorse di questo pianeta sono davvero finite ed è inevitabile che nel medio periodo ci si vada a scontrare contro questo fatto, allora un’alternativa si dovrà pur trovare. Quello che nel frattempo possiamo fare noi singoli individui è semplicemente stare attenti, informarci su quello che compriamo, rinunciare piuttosto a certi prodotti ma essere disposti a pagare di più quelli che sappiamo provenire da filiere corte e certificate, non essere allettati dalla prospettiva di cibo abbondante a prezzi stracciati.

Per il resto, vediamo dove ci condurrà questo circo.

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Volevo lasciarvi, a questo proposito, una manciata di nomi di realtà che operano a Milano e non solo dove potere fare acquisti a km0 e filiera corta, con prodotti certificati, che rispettano l’ambiente e consentono (a volte) anche di risparmiare. Una cosa buona che ha portato il Covid, per esempio, è stata modificare in parte le abitudini dei consumatori, che sono diventati più attenti alla qualità di quello che mangiano e questo non può che giovare alla causa generale, quindi per fortuna si sta assistendo all’emergere e alla diffusione di iniziative e punti di incontro diretti tra consumatore e produttore che spingono nella via di una spesa più ragionata in termini di costi ambientali e sociali. Quelli che propongo qui sono solo dei nomi tra tanti, anzi se ne conoscete altri scrivetemeli nei commenti:

  • Il mercato agricolo di San Siro, ogni sabato mattina dalle 8.30 alle 13.30 presso Mare Culturale Urbano dà la possibilità di fare la spesa direttamente dagli agricoltori del territorio acquistando prodotti freschi, genuini, biologici e a km zero.
  • Cortilia, e-commerce di alimenti freschi a filiera corta. Oltre a valorizzare il territorio puntando su prodotti della tradizione e tutelando il lavoro di artigiani il cui nome è riportato sulle etichette a garanzia dell’acquirente, al centro del lavoro di Cortilia c’è la sostenibilità. Ogni passaggio, dalla produzione al packaging, avviene nel pieno rispetto della natura, degli animali e dei suoi tempi e delle persone che ci lavorano.
  • Fondazione Campagna Amica, promossa da Coldiretti nel 2008, tra le altre cose organizza e promuove i punti di eccellenza della filiera agricola italiana dal produttore al consumatore e a km zero. Sul sito potete trovare il mercato più vicino a voi e, dove possibile, è attivo anche un servizio di consegna a domicilio di prodotti di qualità, sicuri e garantiti.
  • L’Alveare che dice sì!, una piattaforma digitale in cui comprare articoli vicini all’acquirente, favorendo gli scambi diretti fra produttori locali e comunità di consumatori che si ritrovano in piccoli mercati temporanei, chiamati Alveari, portati avanti da un gestore. Il consumatore può scegliere di andare a ritirare la spesa nell’Alveare più vicino e conoscere di persona i produttori, a cui eventualmente può chiedere direttamente informazioni sul prodotto. Ogni Alveare ha il suo luogo e ora di distribuzione, e alcuni consegnano anche a domicilio.
  • Il mercato agricolo dei Navigli, dove si può acquistare direttamente dai produttori: frutta e verdura di stagione, vini naturali senza solfiti aggiunti, riso coltivato rispettando la biodiversità, farine biologiche e lievito madre e tanti altri prodotti selezionati per la loro qualità. Attivo tutti i sabato mattina dalle 7.30 alle 16.00 al civico 116 di Alzaia del Naviglio Grande.

Una moda sostenibile, amare i propri vestiti.

Attenzione, spoiler alert: se leggete questo libro vi passerà la voglia di andare a fare shopping, o per lo meno non di certo con la leggerezza con cui magari lo facevate prima. E se siete grandi fautrici o fautori del decluttering, anche quello inizierà ad andarvi un po’ di traverso.

Orsola de Castro, regina dell’upcycling, mette nero su bianco gli spaventosi numeri di produzione che popolano l’attuale panorama della moda. Spesso il dibattito verte sul cibo, sui suoi sprechi, sul suo impatto ambientale e sull’orrore degli allevamenti intensivi, ma anche il mondo della moda sta lasciando un’impronta pesante sul nostro pianeta, che ha distrutto per sempre vecchi equilibri. Tra tutti, un dato mi è rimasto impresso particolarmente e posso citarlo senza andare a ripescarlo tra le pagine: ogni anno, solo a New York, viene gettata via una mole di vestiti pari a 440 Statue della Libertà (non so se ci rendiamo conto!). Vestiti che sono stati prodotti nella stragrande maggioranza dei casi in una supply chain poco trasparente, da operai e operaie sotto pagati, per cui sono stati utilizzati materiali inquinanti in fase di produzione e che sono finiti a ingombrare, invenduti, i negozi di fast fashion o simili, oppure che abbiamo comprato cedendo a un capriccio del momento perché tanto costavano poco per poi metterli una volta e abbandonarli, capi prodotti in condizioni di lavoro ingiuste e che paradossalmente sono risultati del tutto inutili in ottica dell’uso che ne è stato fatto, ma che di fatto esistono, sono lì a prendere spazio, un mattoncino di quelle Statue della Libertà non biodegradabili, spazzatura piena di plastica la cui permanenza sul pianeta è inversamente proporzionale alla leggerezza con cui ce ne siamo liberati.

È così, tutto il libro della de Castro si basa su questo troppo che gira intorno al mondo della moda e inquina le nostre vite suggerendo best practices e indicazioni per cercare di contenere i danni e fare di più con meno. Le limitazioni non devono essere viste necessariamente come restrizioni, ma come occasioni per stimolare soluzioni creative. Inoltre, non si tratta solo di smettere di comprare o comprare meglio, il messaggio che si vuole far passare – o per lo meno quello che è arrivato a me più forte – è di instaurare un nuovo rapporto con i nostri vestiti, renderli davvero nostri, amarli, costruire delle storie intorno a loro. Questo anche tramite l’arte della riparazione creativa, del ricamo, del rammendo volto a dare nuova vita ai nostri abiti. Se un vestito non ci piace più o se ha dei buchi o dei difetti, prima di buttarlo via senza neanche pensarci proviamo almeno a resuscitarlo in qualche modo per evitare di creare nuova spazzatura inutile. E se proprio dobbiamo comprare, ragioniamo su quello che stiamo comprando: andiamo a indagare i materiali di cui è composto, la sua provenienza, prediligiamo la seconda mano così da non aumentare la richiesta folle di nuovi capi da immettere nel mercato come se già non ce ne fossero abbastanza, scambiamoci i vestiti.

Essere chic nel 2022 non significa avere l’armadio pieno di vestiti diversi e sempre nuovi aggiornati alla moda del momento, ma portare fieramente il proprio maglione liso e i propri pantaloni consumati, che abbiamo messo fino allo sfinimento perché ci piacciono e raccontano qualcosa di noi. Essere chic, o come lo vogliamo chiamare, non potrà mai identificarsi in uno shopping non ragionato, semplicemente perché il nostro pianeta non lo sostiene più e ci sta implorando di continuare a utilizzare ciò che abbiamo già nell’armadio o comprare solo lo stretto necessario. Ci sta chiedendo di riutilizzare manodopera adesso male indirizzata verso mansioni più intelligenti che tornino indietro a un sapere pratico e artigianale o che organizzino la supply chain in maniera diversa in modo che si possa instaurare davvero un tipo di produzione circolare che punta tutto sul riciclo.

Sarebbe sbagliato pensare alla sostenibilità come a una tendenza passeggera, anzi è vero proprio il contrario: in quanto essenziale per la nostra sopravvivenza ed evoluzione, la sostenibilità è una tendenza da centinaia di migliaia di anni. Sostenibilità significa equilibrio, qualità e rispetto. Non ci nega nulla e ci fornisce tutto. Ci parla di gratitudine invece che di avidità, d’intraprendenza invece che di sfruttamento. L’eccesso, ecco cosa fa tendenza, ma è una tendenza di cui dobbiamo disfarci al più presto, se non vogliamo diventare gli strumenti della nostra stessa fine.

Interessante anche la sezione in cui viene fatto un lungo e dettagliato excursus sui principali tipi di fibre, sintetiche e non, con cui vengono prodotti i vestiti. Parlando per me stessa, devo dire che non avevo una grande consapevolezza delle sostanze chimiche contenute nei vestiti con cui la mia pelle viene in contatto, che è un tema strettamente legato anche al lavaggio. Durante i lavaggi in lavatrice i vestiti sintetici fatti per esempio in poliestere rilasciano un sacco di microplastiche che vanno a finire nello scarico, di conseguenza nelle falde acquifere, evaporano e ricadono poi sulla terra sotto forma di pioggia ed ecco spiegati i famosi ritrovamenti di microplastiche sulla cima dell’Everest. Anche su questo punto, Orsola de Castro ci invita a un utilizzo moderato della lavatrice, insegnandoci qualche trucchetto qua e là per rimuovere le macchie manualmente o rigenerare i jeans con il vapore. Quali sono invece tra tutte le fibre su cui puntare di più? Di recente gli attivisti sono tornati alla terra ponendo attenzione alle colture biodinamiche e altri sistemi tradizionali che stanno tornando in auge un po’ in tutto il mondo, ciò significa piantare fibre come il cotone, il lino e la canapa, e coltivarle biologicamente.

Se siamo sensibili sul tema del cibo, non possiamo ignorare quello che sta succedendo anche nel mondo della moda perché le logiche con cui i due mercati si stanno evolvendo sono spaventosamente simili. La finanziarizzazione del cibo è la stessa che sta avvenendo per il prodotto moda. Se un tempo c’era trasparenza sulle materie prime e sui luoghi di produzione, ora è diventato tutto opaco, la conoscenza del prodotto si è persa. Non ci si concentra più sulla qualità e il confezionamento del prodotto, ma sulla costruzione del brand, sull’identità di marchio il cui unico scopo è vendere e arricchire le aziende che stanno dietro a tutto questo. Come dice la de Castro, è la separazione delle persone dal prodotto a causare la totale indifferenza con cui guardiamo alla violazione dei diritti umani: se non riusciamo a capire con quanta fatica e con quanti danni ambientali si produce un vestito è più facile continuare ad acquistarli con leggerezza. E la stessa identica cosa succede per il cibo, con le aziende di marketing che cercano di allontanare quanto più possibile il consumatore finale dalla realtà in cui quel bacon o quella bistecca sono state prodotte.

Amare la moda e apprezzarla per le sue molteplici funzioni implica cambiare modo di ragionare e considerare il fine vita degli indumenti una massima priorità, perché l’unico modo per rimediare agli effetti disastrosi del nostro atteggiamento attuale nei confronti dell’usa-e-getta è chiedersi in primo luogo cosa sono i rifiuti, poi pensare alla longevità dei nostri vestiti – e a un loro uso efficiente – in modo da prolungarne la vita il più possibile. Dobbiamo riparare, riadattare e rindossare, non solo come individui ma in modo sistematico, come società. Il fine vita degli indumenti dovrebbe essere una responsabilità condivisa: i brand devono produrre capi durevoli e riciclabili; i governi locali devono mettere a disposizione impianti di riciclo adeguati, sostenendo le infrastrutture locali in modo che le sartorie in grado di eseguire riparazioni si diffondano sul territorio; e i cittadini devono comprare in modo ragionevole e prendersi cura dei loro vestiti, oltre a favorire attività come lo scambio e il noleggio, in modo da non buttare via capi ancora in buono stato.

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Per onorare lo spirito di sostenibilità che anima questo libro, ho deciso di preparare questa volta una ricetta che non comportasse l’acquisto di nessun ingrediente, usando solo quello che già era nel mio frigorifero o nella mia dispensa. Spesso è facile, spinti dal desiderio di fare nuove ricette che abbiamo visto in giro o ci sono venute in mente, andare a comprare nuovi ingredienti – a volte strambi e quasi introvabili che poi non useremo mai più – quando in realtà a casa abbiamo un sacco di cibo ancora da utilizzare. La torta salata mi è sembrata una scelta indicata perché ci puoi mettere dentro tante cose che magari sono in scadenza oppure sono ormai da tempo dimenticate nelle file più nascoste della dispensa. Non ci sono regole, ognuno può dare sfogo alla propria creatività. La pasta per la torta salata si può benissimo fare in casa, ma io per una questione di tempi ne ho utilizzata una già pronta, ne compro un rotolo praticamente ogni settimana quando vado a fare la spesa principale perché so che, appunto, prima o poi arriverà verso fine settimana la necessità di una ricetta svuota frigo.

In particolare, ho seguito le linee guida di una torta salata che avevo visto sul sito di Vegolosi: ai funghi e alle lenticchie. Coi suoi colori che ci ricordano la terra, con un tocco di verde vegetale, è la perfetta ricetta zero waste. Vi lascio la ricetta qui sotto.

INGREDIENTI:

  • 100 g lenticchie (io ho usato quelle in scatola)
  • 100 g funghi champignon
  • 100 g funghi secchi
  • 1 patata
  • 1 zucchina grande
  • 1 cipollotto
  • 1 spicchio d’aglio
  • 1 cucchiaino zenzero in polvere
  • olio evo
  • sale e pepe q.b.
  • 1 rotolo di pasta sfoglia
  • come strumento: frullatore a immersione

PROCEDIMENTO:

  • Lasciare in ammollo i funghi secchi per 30 minuti, terminato il tempo scolarli, strizzarli e tagliarli grossolanamente.
  • Pelare una patata e tagliarla a dadini, bollirla per 15 minuti e scolare.
  • Tagliare finemente il cipollotto.
  • Tagliare grossolanamente i funghi champignon.
  • Scaldare uno spicchio d’aglio in padella con un po’ di olio evo.
  • Aggiungere poi la cipolla, i funghi e cuocere per una decina di minuti salando il tutto.
  • In una ciotola con un frullatore a immersione ridurre a crema la patata insieme a 1/3 delle lenticchie e 1/3 dei funghi cotti.
  • Aggiungere anche i funghi e le lenticchie rimanenti, lo zenzero in polvere e mescolare.
  • Nel frattempo cuocere una zucchina tagliata a rondelle.
  • Stendere il rotolo di pasta sfoglia e bucherellare la superficie.
  • Unire la crema di lenticchie e funghi adagiando le fettine di zucchina in superficie.
  • Cuocere per 20 minuti in forno preriscaladato a 200°.