Viaggio alle Fær Øer

Ho da poco terminato il libro Isola di Siri Ranva Hjelm Jacobsen, edito in Italia da Iperborea.

Parla di una giovane ventenne danese, la cui famiglia da parte di madre ha radici faroesi, ed è proprio qui, verso le isole Faroe (letteralmente isola delle pecore), che si reca in viaggio con i suoi genitori in seguito alla morte dei suoi nonni, con cui aveva un rapporto molto speciale: l’amata omma, la nonna Marita, che negli anni Trenta dalle Faroe si trasferì a Copenhagen per stare accanto al suo amato, Fritz (il nonno abbi), per rincorrere sogni di modernità e maggiore ricchezza. Un’occasione triste diventa lo stimolo per la contemplazione e l’interrogazione: perché sentiamo il bisogno di tornare dopo essere partiti? Cosa fa di una terra una casa? In che modo i nostri antenati e parenti definiscono il nostro passato, presente e futuro? Come si costruisce la nostra identità attraverso i cambiamenti tra le generazioni?

Queste sono alcune delle domande che la protagonista, non appena atterrata all’aeroporto di Vagàr, fa a sé stessa, chiedendosi cosa significhi avere radici in una determinata terra, i legami che ci uniscono alla nostra famiglia, come essi vanno a fissare la nostra identità e che cosa si possa effettivamente definire casa. Anche i suoi nonni, veniamo a sapere nel corso della narrazione, nonostante avessero lasciato l’isola, non furono mai abbandonati dal ricordo nostalgico di quelle terre selvagge battute dal vento e da un segreto anelito a ritornarci.

Avevo un ricordo di questo posto insieme ad abbi: quell’estate aveva piovuto senza interruzioni. Io avevo preso il mio primo bel 13 in geologia, onestamente anche l’unico. Omma era morta l’inverno prima e abbi era smarrito, fragile. Aveva nostalgia del Nord. quando arrivarono le vacanze, volammo tutti insieme a casa. Dicevamo così, da sempre. A casa, sulle isole. A casa, a Suduroy. A casa, a Sørvágur.
Mia madre è nata a Vordingborg, io nel più grande ospedale di Copenhagen. Si fanno tanti discorsi su cosa sia casa. Uno stato d’animo, le persone che s’incontrano, roba del genere. Per me erano solenni stronzate. Roba da cosmopoliti con lo zaino in spalla, che parlano con la bocca piena di terra, piena di carne. Che vanno in giro a masticare il mondo.
Casa è un toponimo, pensavo. Un nome geografico.
Ma quella volta, con abbi: un agosto umido e verde. Verde muschio, verde nebbia, verde bottiglia.

Le Faroe si aprono ai nostri occhi tramite quelli della protagonista come un mondo estraneo, a sé stante, quasi mitologico e sospeso nello spazio e nel tempo; a tratti ostile nei confronti dell’altro talmente sono forti, identitarie e coriacee le tradizioni che lo abitano: dalla caccia alle balene, alla notte di San Giovanni a giugno – Jóansøku – animata da regate, danze e canti fino all’arte culinaria di essiccare cosciotti di pecora al vento.

Le Faroe rivendicano la loro appartenenza non europea, difendono la loro peculiarità, persino la lingua è diversa dal danese, un altro elemento che contribuisce a creare estraneità nella protagonista che il faroese non lo domina totalmente. Un universo linguistico simile ma differente, ammantato da leggende e saghe che si perdono nella notte dei tempi, Siri Jacobsen in questo romanzo semi autobiografico è riuscita a unire la dimensione folkloristica (streghe del mare, le fate – huldra – che si nascondono sotto i massi in giardino e isole galleggianti che si spostano misteriosamente) a una più intima e universale, quale la ricerca di identità, il venire a patti con una nostalgia dai confini labili e quella del viaggio, che è ritorno a un luogo, a casa, ma anche partenza da un altro posto e in entrambi i gesti si insinua qualcosa di destabilizzante, un piccolo sradicamento che genera interrogazioni e ci mette di fronte punti di vista inediti.

Il tutto tratteggiato da una narrazione che fa avanti e indietro tra il presente e la storia passata della famiglia per scrutare nelle vite di chi è venuto prima, tramite un linguaggio immaginifico ed evocativo che ti fa quasi pensare che questo romanzo non sia stato scritto, ma dipinto.

*

Leggendo il romanzo mi sono interrogata su quale posto possa mai avere la cucina vegana in un luogo così fortemente connotato dal punto di vista geografico e culturale come questo. Nel libro vengono fatte spesso menzioni alla cucina locale, la protagonista stessa mostra dei tentennamenti di fronte al consumo di carne

Avevo appena scoperto il riscaldamento globale, il consumismo, le macellazioni di massa, e rifiutavo la zuppa di carne con panna e pomodori pelati, che peraltro era all’ultimo grido.

ma i freezer di quasi tutta la popolazione faroese sono zeppi di pezzi di carne di balena, che è normale costume mangiare in questi luoghi. Per non parlare della skærpelår, la tradizionale coscia di pecora lasciata essiccare al vento, naturalmente salata dal sale che viene dal mare, che per qualche ragione, nonostante emani un odore putrido di carogna e di formaggio vecchio, è tanto apprezzata alla Faroe.

Io resto della mia opinione, sono arrivata a un punto in cui molto difficilmente riuscirei a buttare giù un pezzo di carne, lo trovo troppo scorretto e ingiusto nei confronti della vita dell’animale, per non parlare dei danni che questo causa all’ambiente. Ma se la prima ragione che spinge a smettere di mangiare carne è universalmente valida in quanto basata su un giudizio etico, la seconda può avere delle piccole eccezioni. Mi spiego meglio: credo che decidere di mangiare carne o pesce in un contesto in cui hai tutte le alternative possibili sulla tavola, quindi cibo vegetale o non vegetale in grandi quantità, facilmente reperibile, sia molto diverso dal farlo laddove invece di alternative non ne hai o ne hai molto poche, come è il caso delle isole Faroe.

Leggevo, e del resto è facilmente intuibile, che qui per via del clima la coltura di quasi tutti i vegetali è praticamente impossibile, salvo qualche tubero o radice, la stessa cosa per gli alberi da frutta, per cui la quasi totalità di frutta e verdura deve essere importata dall’estero a costi esorbitanti. Dunque nella dieta di un locale è molto difficile che siano presenti questi due elementi, per loro è più scontato e intelligente utilizzare quello che la natura offre loro in abbondanza praticamente a costo zero, ossia pesce – qualsiasi punto sulle isole Faroe non dista più di 5 km dal mare – o carne, per lo più agnello o pecora, anche qui, su circa 50.000 abitanti totali delle isole abbiamo 70.000 pecore. 

In un contesto del genere non dico che sia giusto – mi allontano da qualsiasi giudizio morale, sto solo cercando di applicare del sano raziocinio oltre al fatto che detesto i manicheismi – ma arrivo per lo meno a comprendere molto di più il consumo di carne e pesce perché la trovo una scelta, ripeto in un contesto geografico così particolare e circoscritto, più idonea e in sintonia con la natura e l’ambiente circostante, una scelta sostenibile, molto più che in tanti altri punti del nostro pianeta.

Detto questo, le vie che mi aprivano erano due: armeggiare con patate e barbabietole oppure cucinare qualcosa che ricordasse il mare senza utilizzare il pesce. Sebbene sia stata molto tentata dalla prima opzione, ho deciso tuttavia di percorrere la seconda e quelle che vi presento qui sotto sono delle crocchette di finto pesce in cui il sapore del mare viene evocato dalle alghe. Un piatto originale, estremamente piacevole, perfetto da abbinare con una maionese vegana o qualche altra salsina.

INGREDIENTI:

  • 100 g di tofu al naturale, asciugato dai liquidi in eccesso
  • 140 g di ceci lessati
  • 10 g di alghe varie (io ho usato la confezione de La finestra sul cielo acquistata da NaturaSì)
  • 20 g di daikon essiccato (lo trovate sempre da NaturaSì o in altri negozi bio)
  • 1 cucchiaio di lievito alimentare (facoltativo)
  • 1 cucchiaio di gomasio (potete sostituirlo mettendo più sale, io ne ho usato proprio pochissimo avendo già il lievito alimentare e il gomasio, che sono entrambi insaporitori)
  • 1 cucchiaio di olio evo
  • pan grattato q.b.
  • 50 g di semi vari (io ho usato un mix di semi di papavero e semi di sesamo)

PROCEDIMENTO:

Per prima cosa far reidratare le alghe e il daikon secco: vi basterà metterli in due ciotole, ricoprirli di acqua e aspettare una decina di minuti. Trascorso il tempo, scolateli e uniteli al bicchiere di un frullatore insieme a tutti gli altri ingredienti esclusi i semi. Anche il pan grattato vi consiglio di metterlo in un secondo momento: frullate prima per qualche minuto il tofu spezzettato, i ceci, le alghe e il daikon con i vari condimenti, dopodiché aggiungete tanto pan grattato quanto vi basta per ottenere un impasto facilmente modellabile con le mani.

A questo punto preparate una teglia da forno, oliatela leggermente, prelevate una cucchiaiata abbondante di impasto e tuffatela nei semi che avrete versato su un piatto. Formate delle crocchette allungate con le mani, o anche delle polpette tonde se preferite, e adagiate sulla teglia. Verranno fuori all’incirca 10 crocchette. Cuocete in forno preriscaldato a 180° per 20 minuti, finché saranno dorate, negli ultimi minuti io ho azionato la funzione grill.

Le ho servite infine con della maionese vegana, erano ottime!

Potete servirle come un originale antipasto o come secondo unendole per esempio a un contorno di patate.

Cena tra amici con Bolaño

Leggi I detective selvaggi e se sei come me uno che lavora a tempo pieno (anzi pienissimo), alla lettura non è che puoi dedicare più di un tot di ore al giorno. I detective selvaggi sono 688 pagine, quindi leggerlo quando si ha un po’ di tempo significa portarsi appresso il malloppo per un bel po’ di giorni, dentro e fuori le borse, dentro e fuori i mezzi pubblici, sulle panchine sporche nella pausa pranzo, alla luce tenue di una lampada quando rubi un po’ di ore al sonno, e alla fine sembra che il momento della giornata in cui ti riconnetti con Ulises Lima, Arturo Belano e tutti gli altri realvisceralisti sia l’unico che davvero aspettavi. Poi lo finisci e ti chiedi con un po’ di stupore: ma cosa ho appena letto?

Il mio maestro di storia del teatro russo diceva sempre che bisognava leggere Anna Karenina a diverse età della propria vita perché è un romanzo complesso che particolarmente si presta a regalarti diverse e nuove visioni a seconda del tuo grado di maturazione e I detective selvaggi mi ha restituito una sensazione simile, nel senso che prendendolo in mano una decina di anni fa ci avrei letto sicuramente delle cose che adesso ho letto diversamente. Probabilmente capita per quasi tutti i libri, ma alcuni si prestano più di altri.

I detective selvaggi è il libro dei vent’anni, della vita bohemiene e di quello che succede dopo, è l’epopea di un gruppo di poeti messicani guidati dai due che ho citato sopra che stanno tentando di imporre una nuova corrente d’avanguardia, il realvisceralismo, a Città del Messico. Si incontrano, si portano sempre appresso libri, fanno sesso, bevono molto, vanno ai convegni di poesia, parlano fino a notte fonda e girano per le strade di questo DF, una città che nelle sue descrizioni unisce l’etereo e il brutale, la fogna e l’altitudine. I detective selvaggi è il racconto della sconfitta di una generazione di ragazzi che pensava di cambiare il mondo mettendo insieme le parole in maniera diversa e invece si ritrova semplicemente impelagata nei soliti problemi del diventare adulti e sopraffatta dalla politica, un mosaico di umanità. Un testo torrenziale, sfuggente, che si manifesta con la potenza di un incubo o di un sogno, come gran parte della letteratura sudamericana che mi è capitato di leggere finora.

Il romanzo è articolato in tre sezioni principali: nella prima ambientata negli ultimi mesi del 1975 seguiamo le vicende dei realvisceralisti narrate in prima persona da Juan García Madero, un ragazzo iscritto a giurisprudenza che viene però facilmente distratto dai suoi doveri nel momento in cui entra a far parte della cerchia di questi poeti; la seconda, la più sostanziosa, prende un arco temporale molto ampio che dal ’75 si estende fino alla seconda meta degli anni ’90, qui le esperienze vissute da Lima e Belano, protagonisti prismatici del romanzo, si moltiplicano nel racconto di tanti altri personaggi che in qualche modo sono venuti a contatto con loro portando alla luce nuovi episodi delle loro esperienze erranti; la terza e ultima riprende da dove era terminata la prima, l’ultimo giorno del 1975, per portarci nei deserti del Sonora, dove Lima, Belano e García Madero sono fuggiti con Lupe per scappare da una banda di criminali e soprattutto per recuperare le tracce di Cesárea Tinajero, quella che sembra essere la madre della poesia realvisceralista.

Leggendo si ha la sensazione che un sottile filo di follia tenga insieme una pagina con l’altra, si ha l’idea di avere tra le mani un romanzo in cui lentamente tutto va in malora, Lima e Belano ne vengono fuori come due personaggi straordinari e straordinariamente inconcludenti, vittime delle loro visioni profetiche. Ma nonostante questo effetto di disintegrazione inarrestabile, il gioco che sottende il testo e il piacere dell’audacia formale di Bolaño rendono la lettura estremamente piacevole in ogni momento.

Il tessuto intertestuale è molto ricco, le cose che più saltano all’occhio sono i riferimenti all’Ulisse di Joyce e all’Odissea di Omero nel nome di Ulises Lima e nel peregrinare infinito dei due protagonisti. I detective selvaggi è in effetti il libro che ti fa perdere, che a un certo punto ti spinge fino a dei villaggi africani devastati dalla guerra dove il punto è spingersi oltre il significato di qualsiasi esperienza perché forse il problema è che quel significato non c’è. È il libro dei deserti del Sonora dove vibra una spiritualità tutta diversa, dove la vita diventa più metafisica ed è il libro delle immense notti del DF, dove non sono mai stata, e ora non vedo l’ora di andarci.

Se mi chiedessero perché leggerlo, risponderei: perché alla fine ti apre una finestra.

IL PIATTO DEL LIBRO: per questo libro, oltre che volare in Messico con i sapori, volevo fare qualcosa che si prestasse a essere consumato in una cena tra amici perché è qualcosa che ben si adatta all’atmosfera del romanzo. Ho pensato a un piatto di enchiladas preparate con un ripieno di fagioli neri e una gustosa salsina di anacardi in sostituzione del formaggio fuso.

INGREDIENTI per 2-3 persone:

  • 150 g di fagioli neri (io ho usato quelli secchi, messi in ammollo la sera prima e poi cotti con la pentola a pressione per 30 minuti)
  • 100 g di riso rosso cotto
  • 2 patate dolci medio-piccole, tagliate in piccoli pezzi
  • 1 peperone, tagliato a cubetti
  • 1 cipolla piccola, tagliata sottile
  • 1 spicchio d’aglio, tritato
  • 7 tortillas (io le ho usate con farina integrale)
  • salsa chilli
  • 2 cucchiai olio evo
  • pepe fresco macinato
  • erba cipollina / prezzemolo fresco tritato
  • 1 avocado tagliato a pezzetti per il topping
  • formaggio vegetale agli anacardi (per quello ricetta a parte)

MEAL PREP:

Armatevi di un po’ di pazienza perché è un piatto molto semplice, ma che richiede un po’ di tempo, soprattutto se non avete preparato nulla in anticipo. Quindi per ottimizzare i tempi, potete iniziare a cuocere i fagioli e il riso anche il giorno prima, oppure usare i legumi in scatola. Stessa cosa anche per il “formaggio” di anacardi. In questo modo non vi resterà che tagliare e cuocere le verdure e poi assemblare tutti gli ingredienti per creare le enchiladas. Se usate la pentola a pressione per cuocere i fagioli, 30 minuti dal fischio e sono pronti, potete aggiungere l’alga kombu in cottura che aiuta nel rendere i legumi più facilmente digeribili (soprattutto per chi non è tanto abituato a mangiarli). Per quanto riguarda la salsa, potete trovare tante ricette per farla in casa, che è sicuramente la scelta migliore, ma non avendo tanto tempo io l’ho comprata già pronta da Kathay a Milano (potete vedere nelle foto sotto quella da me usata).

  1. Mettete le patate dolci tagliate a pezzetti in una padella grande, a fuoco medio, con due cucchiai di olio. Condite con una generosa manciata di sale e pepe.
  2. Cuocete per circa 5 minuti e aggiungete l’aglio tritato.
  3. Aggiungete il peperone tagliato a strisce sottili, la cipolla, i fagioli e mescolate.
  4. Cuocete ancora per qualche minuto, magari con coperchio, finché le patate saranno belle tenere.
  5. Aggiungete anche il riso e un paio di cucchiai di salsa, mescolate per amalgamare bene il tutto e togliete dal fuoco.
  6. Preriscaldate il forno a 180°.
  7. Ricoprite con uno strato di salsa il fondo di una pirofila.
  8. Mettete un paio di cucchiaiate di ripieno sul bordo di una tortilla e aggiungete anche un po’ di formaggio vegetale.
  9. Richiudete la tortilla e riponetela con i bordi verso il basso all’interno della pirofila. Ripetete l’operazione fino a riempimento.
  10. Ricoprite le tortillas con la salsa rimanente e aggiungete anche il formaggio vegetale che rimane.
  11. Infornare e cuocere per 20 minuti a 180°.
  12. Per finire, aggiungere l’erba cipollina o il prezzemolo o il coriandolo a seconda delle vostre preferenze e l’avocado a pezzi.

Nota: per preparare il formaggio vegetale agli anacardi, ho preso 125 g di anacardi al naturale e li ho ricoperti per almeno 10 minuti con acqua bollente (questo è il metodo veloce, altrimenti dovresti lasciarli in ammollo per una notte intera), li ho scolati e li ho messi in un frullatore insieme al succo di mezzo limone, 60 g di acqua, sale, paprika affumicata ed erba cipollina fino ad ottenere una crema omogenea.

CITAZIONE DAL LIBRO:

Belano, gli dissi, il nocciolo della questione è sapere se il male (o il delitto o il crimine o come vuole chiamarlo) è casuale o causale. Se è causale possiamo lottare contro di lui, è difficile da sconfiggere ma c’è una possibilità, più o meno come fra due pugili dello stesso peso. Se è casuale, al contrario, siamo fregati. Che Dio, se esiste, abbia pietà di noi. È a questo che si riduce tutto.

Nella direzione opposta

Thomas Bernhard è uno dei più grandi scrittori europei del Novecento. Si è scavato il suo spazio nel panorama letterario creando uno stile unico e micidiale. Lessi per primo Il soccombente, mi bastarono poche righe per rimanere folgorata e da lì in poi divenne uno dei miei rifugi di intelligenza preferiti, uno dei ripari sicuri a cui tornare nei momenti di tempesta. E laddove si potrebbe leggere una letteratura pessimista, esageratamente negativa e polemica, io ci ho sempre visto la massima lucidità, lo sforzo della razionalità che scala le insensatezze dell’esistenza e con difficoltà arriva in cima per godere di un panorama che regala una visione a 360°.

Come dissi già una volta, si potrebbe dire, con qualche margine di generalizzazione, che Bernhard nella sua vita abbia scritto un solo lungo libro: la sua penna è immediatamente riconoscibile grazie a uno stile in cui il come è perfettamente a servizio del cosa – anche se a suo dire il come lo interessò sempre più del cosa – e in effetti le tematiche che troviamo nei suoi romanzi sono ricorrenti. Ne cito alcune: l’ottusità delle convenzioni sociali, le difficoltà della vita familiare, pensieri sulla morte, la malattia e il suicidio, raccontate per lo più tramite monologhi, flussi di pensiero ininterrotti in cui il pensiero si dirama, si flette, salta ostacoli, ripiega su se stesso, si scontra con l’ossessione della ripetitività, dell’esagerazione per poi lanciarsi a momenti in libere corse. Tutti concetti che, a dire la verità, ne nascondono solo uno e fondamentale: la vita come teatro.

Ultimamente ho letto La cantina, romanzo abbastanza breve che fa parte dei cinque che insieme a L’origine – un accennoIl respiro – una decisioneIl freddo – una segregazione e per ultimo Un bambino compongono la sua autobiografia. Ne La cantina in particolare parla di un momento decisivo nella sua adolescenza quando scelse di abbandonare il ginnasio per andare nella direzione opposta. Direzione opposta in tutti i sensi, metaforicamente e letteralmente, lasciando quindi il ginnasio in uno dei quartieri più posh di Salisburgo per andare a fare l’apprendista in una cantina di alimentari nella parte più malfamata e degradata della città, decisione che significò per lui la sopravvivenza, la migliore che potesse prendere.

Ragioni per cui dovreste leggere questo libro:

  • se volete essere storditi (positivamente, si capisce);
  • se in un libro vi interessa più la fattura della trama;
  • se ritenete che la consapevolezza nella vita sia un bene prezioso e non un mostro da cui scappare;
  • se siete a un punto di svolta nella vostra vita e avete bisogno di andare nella direzione opposta;
  • se volete ridere, perché l’arte dell’esagerazione ha in sé il germe del comico;
  • se vi fanno passare per misantropi, ma poi si sa che non è questo il punto;
  • se odiate gli austriaci (no scherzo, questo non prendetelo davvero in considerazione).

IL PIATTO DEL LIBRO: A proposito, si sa che Bernhard molto spesso nei suoi libri non la tocca leggera con l’Austria, il suo paese, agli austriaci gliene ha dette di tutti i colori, quindi mi sembra giusto proseguire sulla sua linea, spingere le cose fino all’estremo e creare per questo secondo appuntamento di settembre proprio un piatto tipicamente austriaco (viennese) per il nostro Bernhard: la cotoletta, ma nella direzione opposta: vegana! La versione che vi propongo qui è mutuata da diverse cose trovate sul web, ma rifatta con il mix di ingredienti che ho trovato più di mio gusto. Potete accompagnarla con il contorno che volete, ma io sono andata proprio sul classico.

INGREDIENTI per 4 persone:

  • 150 g farina di ceci
  • 100 ml acqua temperatura ambiente
  • 1 cucchiaino di sale
  • 1 pizzico di paprika affumicata
  • 1 cucchiaio fecola di patate
  • 1 cucchiaio di olio evo
  • 1 cucchiaino di senape
  • farina di mais q.b. per impanare alla fine
  • limone e prezzemolo per guarnire
  • burro vegetale q.b.

PROCEDIMENTO:

Unite in una ciotola tutti gli ingredienti tenendo per ultimi olio e acqua, mescolate fino a ottenere una pastella morbida ma abbastanza compatta e lasciate riposare per almeno mezz’ora/un’ora.

Versate il pangrattato in una ciotola, prelevate un cucchiaio generoso di pastella e passatela nel pangrattato schiacciandola poi con le mani per darle la forma di una cotoletta.

Nella versione originale, la Wiener schnitzel viene fatta cuocere nel butterschmalz (burro chiarificato), quindi anziché usare l’olio, ho fatto sciogliere in una padella antiaderente una noce di burro vegetale e fatto cuocere le cotolette 2 minuti circa per lato fino a doratura, prestate attenzione che non si brucino.

Servitele con un po’ di limone spremuto (questo aiuterà anche l’assorbimento del ferro) e del prezzemolo sminuzzato, più il contorno che preferite.

CITAZIONE DAL LIBRO:

Noi ci domandiamo spesso che cosa sia e dove stia la felicità, perché questo è il solo interrogativo che ci appassiona sempre e per tutta la vita, senza mai darci tregua. Ma a questo interrogativo non dobbiamo dare risposta se siamo saggi e non vogliamo sporcarci con la nostra sporcizia più di quanto ci siamo già sporcati. Io cercavo il cambiamento, l’ignoto, forse anche l’eccitante e l’inquietante, e tutto ciò l’ho trovato nel quartiere di Scherzhauserfeld. Non sono entrato con compassione nel quartiere di Scherzhauserfeld, ho sempre odiato la compassione e, più profondamente che mai, l’autocompassione. Non mi sono mai permesso di avere compassione e ho agito solo per motivi di sopravvivenza. Già sul punto di mettere fine alla mia vita per tutti i motivi, ho avuto l’idea di interrompere la strada che stavo percorrendo già da molti anni con morbosa ottusità e mancanza di fantasia e sulla quale mi avevano messo con la loro tetra ambizione i miei educatori, e allora ho fatto dietrofront e sono tornato indietro di corsa per la Reichenhaller Strasse, in un primo momento sono tornato soltanto indietro, senza sapere dove stessi andando mentre tornavo indietro. Da questo momento in poi mi occorre qualcosa di completamente diverso, ho pensato, non ho pensato altro in quell’agitazione, qualcosa di completamente opposto rispetto a quanto fatto finora […] Qui non c’erano professori di matematica, né professori di latino, né professori di greco, e non c’era neppure un direttore dispotico al cui solo apparire mi sentissi inevitabilmente mozzare il respiro, qui non c’era nessuna istituzione micidiale. Qui non c’era la continua necessità di controllarsi, di chinare il capo, di fingere e di mentire pur di sopravvivere. Qui tutto quello che ero non veniva continuamente esposto agli sguardi critici, già di per sé micidiali, e non si pretendevano continuamente da me cose inaudite, disumane, o meglio la disumanità stessa. Qui non ero ridotto a una macchina per imparare e per pensare, qui potevo essere me stesso.

In un certo sono un burger vegano

Quando mi è venuta l’idea di unire cucina vegana e letteratura, stavo leggendo La fine della strada di John Barth e quindi non mi viene in mente un libro migliore da cui partire.

La fine della strada (pubblicato originariamente nel 1958) è uno dei suoi primissimi romanzi, improntato sul tipico realismo americano ma con un twist totalmente barthiano che già ci fa intuire quale sarà il suo stile di scrittura futuro, più barocco e sperimentale: non per nulla viene considerato uno dei padri della letteratura post-moderna, David Foster Wallace stesso scrisse un testo, Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso, costruito su alcuni personaggi di Lost in the Funhouse, che è una delle opere più famose di Barth.

Il romanzo parla di un triangolo amoroso davvero sui generis in cui un modesto docente delle superiori, Jacob Horner, in cura presso un dottore specializzato nel trattamento di paraplegici (anche se la paraplegia del protagonista non ha niente a che vedere con il fisico), appena trasferitosi in una nuova cittadina, Wicomico, dove ha preso incarico proprio su consiglio del suo Dottore, si trova a fare amicizia con una coppia del posto, i Morgan, sviluppando delle dinamiche che porteranno alla rovina di tutti e tre i personaggi.

L’incipit è già di per sé una dichiarazione di poetica: “In un certo senso io sono Jacob Horner“. Tutto il testo è infatti costruito intorno al tema della scelta e a come le scelte o non-scelte che noi facciamo contribuiscano a costruire la nostra identità, sebbene questo si riveli molto spesso un gioco dettato dal caso (si vedano le curiose terapie prescritte dal Dottore) o dalla necessità e quindi non davvero una scelta per definizione; mentre in alcuni casi aderire troppo a delle (auto)imposizioni dettate dalla razionalità porti comunque a un impasse in cui anche la ragione stessa mostra le sue mancanze. In effetti, tutto il vero, tragico realismo del romanzo è concentrato negli ultimissimi capitoli dove si sfogano tutte le tensioni e i giochi psicologici sviluppatesi nei capitoli precedenti, che hanno invece un tono decisamente più scanzonato e divertente (su alcune pagine si ride proprio di gusto). Inoltre, sebbene il romanzo si preoccupi di mantenere vivo un senso di verosimiglianza, è denso di riferimenti metanarrativi: riflessioni sulla scrittura e su come la scrittura manipoli e in un certo senso tradisca la realtà.

IL PIATTO DEL LIBRO: Parlando di America anni ’50 in una sperduta cittadina di provincia, parlando di sperimentalismo e, perché no, parlando di questioni legate all’identità, a questo libro assocerei senz’altro un bel burger vegano. Io l’ho fatto con la barbabietola e le lenticchie, è incredibile perché la consistenza del composto che si ottiene è simile al macinato della carne e anche il colore e l’aroma dato dalle spezie utilizzate aiuta ad alimentare quest’illusione.

INGREDIENTI per 3 burger:

  • 1 barbabietola rossa grande, cruda
  • 2-3 cucchiai di olio evo
  • 1 cucchiaino di paprika affumicata
  • 1/2 cucchiaino di cumino macinato
  • 25 g di noci sgusciate
  • 85 g lenticchie cotte (io ho usato quelle in scatola per abbreviare i tempi)
  • prezzemolo tritato con aglio q.b.
  • circa mezza cipolla non molto grande tagliata finemente
  • 30 g farina di mais (o pangrattato)
  • 1 cucchiaio di miso
  • 1/2 cucchiaio di concentrato di pomodoro
  • 1 cucchiaino di amido di mais
  • sale e pepe q.b.

N.B. Come strumenti vi serviranno un mixer/robot da cucina e una grattuggia a maglie larghe. Preparate in anticipo la quantità giusta di ingredienti che vi servono e disponeteli in ordine insieme a tutti gli attrezzi di cucina, renderà molto più armonioso l’intero processo.

PROCEDIMENTO:

  1. Tritare le noci finemente e metterle da parte.
  2. Risciacquare le lenticchie sotto l’acqua corrente per eliminare il sale in eccesso.
  3. Pulire la barbabietola e grattuggiarla.
  4. Farla rosolare in padella per due minuti con un filo di olio e sale; aggiungere poi anche il prezzemolo con aglio, una spruzzata di cumino e la paprika affumicata, fare cuocere ancora per 5 minuti finché la maggior parte del liquido della barbabietola non viene assorbito.
  5. In una bowl, mescolare le barbabietole cotte con la farina di mais, le lenticchie, le noci tritate, il cucchiaio di pasta miso, il concentrato di pomodoro e la cipolla.
  6. Aggiungere infine 1 cucchiaino di amido di mais e una generosa spruzzata di pepe nero, mischiare bene il tutto.
  7. Prendere circa 1/3 del composto e frullarlo in un mixer insieme a un filo d’olio e un cucchiaio di acqua per ottenere una consistenza simile a una purea e unirlo poi nuovamente con il resto del miscuglio più “grezzo” e mescolare.
  8. Formare dei burger se ce l’avete anche con l’aiuto di un coppapasta tondo, con queste quantità dovrebbero venire fuori 3 burger dimensione large.
  9. Passateli in padella con olio a fuoco medio-alto 2 minuti per lato e ripassateli infine in forno a 180° per 20 minuti per renderli ancora più compatti.
  10. Infine create il vostro panino con gli ingredienti che preferite. Io ci ho messo semplicemente un po’ di mayo veg, dei pomodori tagliati a fettine e delle foglie di insalata.

CITAZIONE DAL LIBRO:

[…] Questa è l’essenza che gli avete assegnato, almeno temporaneamente, per i vostri scopi, come un romanziere fa di un uomo Il Bello E Giovane Poeta o Il Vecchio Marito Geloso; e anche se sapete bene che nessun reale essere umano è mai stato soltanto un Servizievole Addetto A Un Distributore Di Benzina o un Bello E Giovane Poeta, siete nondimeno preparati a ignorare le affascinanti complessità del vostro uomo – dovete ignorarle, se volete andare avanti con la storia, o far sì che le cose avvengano secondo il piano prestabilito. Ma di ciò si parlerà più avanti, perché è collegato alla mitoterapia. Per ora basti dire che per gran parte del nostro tempo, se non sempre, siamo tutti dispensatori di ruoli, ed è saggio chi si rende conto che il suo dispensatore ruoli è, nel migliore dei casi, un’arbitraria deformazione della personalità degli attori; ma è anche più saggio chi vede, oltre a ciò, che questo arbitrio è probabilmente inevitabile, e sembra a ogni modo necessario se uno vuole raggiungere il fine che desidera.