I miei stupidi intenti di Bernardo Zannoni

Una faina che racconta la storia della propria vita all’interno di un bosco popolato da animali che vivono all’apparenza una vita pressoché antropomorfizzata: le loro tane hanno cucine e camere da letto, ciascun membro della famiglia vanta un nome proprio e ci sono medici e usurai che ci parlano di istituzioni sociali ed economiche rudimentali.

Il protagonista, Archie, è una faina che diventa zoppa dopo avere tentato di rubare delle uova che si trovavano in cima a un alto albero: diventato inutile agli occhi della madre che non prova un minimo di affetto nei confronti del figlio decide di venderlo alla volpe Solomon in cambio di qualche gallina da mangiare. Solomon è un usuraio, grazie alla sua astuzia e a un cane da guardia, Gioele, che sta sempre al suo fianco e si occupa di andare a sistemare eventuali debiti insoluti, si è guadagnato il rispetto e la riverenza di tutti gli animali del bosco. Archie diventa il suo apprendista e dopo un inizio non facile tra i due, Solomon inizia a vedere in lui delle potenzialità e pian piano lo introduce alle sue passioni legate alla sfera dell’essere umano, che da sempre ha giocato un enorme fascino su Solomon. Presto capiamo infatti che la volpe non è un animale come tutti gli altri: ha coscienza del tempo, ha imparato a leggere e a scrivere e crede in Dio.

Il grande monolite intorno a cui gira l’intero romanzo è questa dicotomia tra uomini e animali. Da una parte c’è il regno della sopravvivenza a tutti i costi, dell’istinto, della ferinità; dall’altro quello della consapevolezza del nostro essere transeunti, destinati a condurre una vita breve e piena di dolore in cui le pene possono essere alleviate dalla fede in un Dio di cui in fondo non abbiamo le prove dell’esistenza oppure dal piacere di trasporre le nostre avventure tramite la scrittura e renderle in questo modo eterne.

Archie non sembra in fondo guadagnarci molto da tutto questo bagaglio di conoscenza che Solomon gli lascia in eredità: si configura sì come un essere speciale, ma pur sempre in precario equilibrio tra un mondo di sentimenti tutti umani e un istinto animale che lo porterebbe persino a mangiare i suoi figli per non morire di fame durante il rigido inverno. Resta infine solo, vecchio, orfano ormai di quella beata incoscienza animale sostituita dalla chiara consapevolezza che presto dovrà morire, il suo ultimo lascito al mondo è la scrittura delle sue memorie che lascerà in custodia al suo unico amico rimasto, un istrice che lo ha salvato da un pericoloso incendio, nella speranza che questo gesto renda significativa la sua breve permanenza su questa terra.

Qual è il messaggio ultimo che il romanzo ci vuole dare: forse che sia meglio restare protetti dall’ignoranza e non giungere mai al sapere? Che dovremmo rivedere e accettare con maggiore imperturbabilità certe “violenze” dell’esistenza perché si insinuano in fondo nel semplice cerchio naturale dal quale proveniamo? O al contrario rivalutare l’anelito dell’uomo di giungere al Vero che lo differenzia da qualsiasi altro animale? Resta al lettore decidere. Quel che è certo è che alcuni atteggiamenti umani rivisti in questa chiave animale non possono che farci riflettere, perché li vediamo attraverso una prospettiva inedita e a cui non siamo abituati. Una prospettiva narrativa sicuramente originale, ma non innovativa perché si tratta di un espediente già visto nel panorama letterario: si pensi al celebre racconto di Tolstoj Cholstomér in cui la voce narrante è quella di un cavallo. Si tratta di una pratica artistico-letteraria che i formalisti russi chiamavano straniamento: sottrarre la materia narrata alla convenzionalità della prospettiva canonica e presentarla invece sotto una nuova luce.

La grande ambizione di questo romanzo risulta in ultima analisi anche la sua zavorra: troppi grandi temi messi sul tavolo – Dio, il sapere, il potere taumaturgico della letteratura che rende eterni, la diade uomo-animale – che donano sì una sorta di epicità alla narrazione, ma senza trovare il giusto respiro. C’è qualcosa di potente nell’imperfezione di questo testo, che colpisce, tuttavia il coltello non affonda abbastanza e le riflessioni che scatenano scivolano spesso nell’ingenuità e nello stereotipo anche per via della assoluta aderenza alla tradizione con con la quale vengono raccontati. Un esordio narrativo i cui meriti vanno riconosciuti, ma che non mi ha fatto saltare in piedi dalla gioia. Mi riservo di leggere anche gli altri libri finalisti del Campiello vinto appunto da Zannoni con I miei stupidi intenti.

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Vi lascio una ricetta semplicissima che profuma di bosco perché ha come protagonista i funghi. È la stagione giusta: cucinateli più che potete, tanto più che sono ricchi di triptofano che dà origine alla serotonina, neurotrasmettitore che regola l’umore, l’aggressività, il comportamento sessuale, la sensibilità al dolore, il ciclo sonno-veglia e favorisce la distensione e il rilassamento.

ORZO PERLATO CON FUNGHI SHIITAKE E TEMPEH GRIGLIATO

Ho pulito i funghi Shiitake eliminando il gambo (se li volete freschi io li ho trovati per esempio da Naturasì, secchi li trovate nei maggiori supermercati etnici come per esempio Kathay a Milano). Ho messo l’orzo a cuocere e nel frattempo ho tagliato i funghi a listarelle e li ho fatti cuocere in padella qualche minuto con un po’ di olio e aglio, ho lasciato che si asciugassero e ho aggiunto poi il tempeh sempre tagliato a listarelle (io ho preso ancora una volta da Naturasì quello già grigliato), ho condito con un goccio di salsa di soia e ho lasciato cuocere per altri 10 minuti. Dopo avere unito l’orzo cotto con i funghi e il tempeh, ho aggiunto anche della rucola fresca.

Le pianure di Federico Falco

Quello che mi piace dell’orto è che non serve pensare. Si tratta solo di fare e fare. Piantare la vanga, rivoltare la terra, rastrellare, strappare le erbacce, seminare, sporcarsi di fango, potare, andare, venire. Fare e fare e fare. Il corpo si stanca. La mente si svuota. Scrivere, invece, è un continuo pensare. Il tentativo di tradurre tutto in parole. Di avvicinarsi il più possibile a dare un nome alle cose. La mente si sfinisce in questa precisione impossibile, sembra che la testa stia per scoppiare.

Le vicende narrate in questo libro sono piane come il paesaggio che descrive. Una scrittura tranquilla, che cerca di dare forma ad agitazioni centripete.

Siamo in Argentina, nella pampa, in una casa di campagna nei dintorni del paesino di Zapiola. Qui è dove il protagonista del romanzo, che poi è lo stesso autore, si è rifugiato dopo la fine di una storia d’amore durata 7 anni con il suo compagno. Per riprendersi, per tornare a imparare a vivere passa la maggior parte del tempo in solitudine a eccezione delle poche persone che animano i dintorni, progetta e si occupa del suo orto, legge i libri, si abbandona a quelli che sono i ritmi della natura; così si potrebbe riassumere la trama con poca consolazione degli amanti di intrecci avvincenti. Ma io, per esempio, sono un’estimatrice dei libri senza trama, non ho fatto altro che leggere libri senza trama per tutta la mia vita e ne sono rimasta totalmente soddisfatta, anzi direi stregata.

Federico Falco, classe ’77, è uno scrittore argentino che in Italia è già stato pubblicato da Sur con la raccolta di racconti Silvi e la notte oscura, un libro prezioso che ti abbraccia con le sue storie immerse nel non-tempo argentino. La stessa delicatezza l’ho trovata qui, nelle Pianure, nel narrare una vicenda estremamente personale che ci permette di sperimentare una cosa che solo la letteratura è in grado di fare: avvicinarci in maniera così intima al dolore di un’altra persona tanto quasi da poterlo sentire, sentire quella stanza fredda dove ci si sveglia da soli giorno dopo giorno, l’attenzione ai dettagli nell’immergersi in lavori manuali che prima non si era soliti fare, il restare impegnati per non pensare e il pensiero che inevitabilmente a tratti riemerge, spigoloso, pungente, la gioia quasi ingiustificata per qualsiasi verdura che spunti e cresca, l’inevitabilità del progredire del mondo con le sue leggi naturali che non si curano dei crucci degli essere umani, la natura, splendente e immensa, che esige fatica, sempre in sottofondo.

Qui il paesaggio predomina su tutto, contamina tutto, invade tutto, tutto è paesaggio. Perfino all’ora della siesta, con la casa chiusa e al buio, è impossibile dimenticarsene. Perfino senza aprire gli occhi, perfino quando si dorme, non si smette mai di sentire il cerchio dell’orizzonte.

Percorrere il sentiero che dalla campagna porta verso il paese, prendersi cura dell’orto, dar da mangiare alle galline, la paura che un’iguana le attacchi, che i ravanelli non sviluppino le teste. L’arte ci mette di fronte alle cose di cui non ci accorgiamo, è uno dei scuoi scopi. Accorgerci della bellezza di piccoli gesti quotidiani. La pampa è sempre uguale a sé stessa nella sua monotonia eppure i dettagli fanno la differenza, la pampa sempre uguale a sé stesse che cambia il nostro approccio alla vita.

Scrittura come diario di bordo, note brevi quasi ermetiche, periodi semplici, tentativo di sfuggire alla complessità, racconti di cieli coperti e riscoperte di cosa sia il tempo e l’attesa.

C’è un pensiero nella seconda metà del libro che secondo me è la chiave di lettura di questo romanzo. Parla di quei film o di quei romanzi nei quali vengono raccontati solo i fatti importanti di una vicenda, quelli che fanno avanzare la trama. Il resto – i dubbi, la noia, le lunghe giornate in cui non succede niente, la tristezza stagnante – sparisce a colpi di ellissi, di tagli netti, di rapidi riassunti. I due si lasciano e nel mentre parte una musichetta triste, appare un calendario in sovrimpressione i cui fogli girano in fretta portati via dal vento finché non arriva il momento del lieto fine. Che cosa fanno i personaggi tristi dei film in tutte le ore del giorno? Che cosa fanno quando non suona la musica? È come se nel tempo del lutto non ci fosse narrazione, dice Falco, provando invece a fare esattamente l’opposto con questo libro il cui tema è proprio questo: il travail de deuil, come direbbero i francesi, lavorare il lutto, provare a farlo tramite la narrazione pur nella consapevolezza che nessuna parola doma davvero il dolore, nessuna parola riesce a dirlo veramente.

È stata una lettura riappacificante, calda, da gustare sdraiato su un prato in un pomeriggio di sole, che consiglierei in generale, ma soprattutto a chiunque abbia paura della solitudine e abbia bisogno di consolazione.

La pampa mette di fronte anche a questa verità, quasi zen: non c’è un posto migliore al quale ascendere, non c’è una felicità da guadagnare, non c’è nessun posto dove andare, non c’è nessun posto da raggiungere. Il mondo è questo e sarà sempre questo. Alcuni possono affacciarsi sul vuoto. Ad altri dà le vertigini.

Nel libro vengono spesso appuntati i piatti che il protagonista si prepara. Quelli con il kale Red Russian la fanno da padroni perché è una delle verdure che cresce meglio nell’orto: pasta con aglio e kale saltato, frittata con le biete e kale tagliato fine etc. etc.

Però purtroppo il kale non è una verdura che si trova fresca in questa stagione, allora per non tradire la semplicità e genuinità delle ricette che Federico si cucina, vi propongo delle caserecce integrali fresche solo con biete saltate al peperoncino, super basic come ricetta, ma ve la metto lo stesso.

Visto che abbiamo praticamente solo due ingredienti, assicuratevi che siano buoni. Io, come scrivevo sopra, ho optato per una pasta fresca integrale – per mantenere un sapore più rustico – comprata in un pastificio, se avete tempo e voglia perché non provare a farla voi in casa?! Le bietole invece acquistatele belle fresche, se potete da filiera corta, rivolgetevi al vostro ortolano di fiducia oppure andate direttamente dagli agricoltori, se vivete in una città come Milano ormai sono tanti gli hub che permettono di fare questo soprattutto nel weekend.

Per due persone ne ho fatto un cespo bello grande per intero, c’è da dire che mangiamo tanto. Io stacco la costa dalla foglie più tenere e le taglio a pezzettini. Faccio bollire questa parte più dura in acqua bollente salata per 10 minuti circa, dopo 6-7 minuti aggiungo anche le foglie e scolo tutto poco dopo. Lascio sgocciolare per bene e le salto poi in padella con aglio, olio e peperoncino. Nel frattempo bollite la pasta, lasciate un pochino di acqua di scolo e saltatela insieme alle biete. Potete aggiungere infine un filo di olio evo a crudo e qualche goccia di limone.

Buon appetito e buona lettura!

Sapore di Russia

Ho finito di leggere La filiale di Sergej Dovlatov, edito in Italia da Sellerio con la sempre impeccabile cura di Laura Salmon. Siamo in America, New York, nel 1981. Dalmatov, dietro il cui pseudonimo non è difficile riconoscere l’autore in carne e ossa Dovlatov, è un giornalista expat russo che lavora per un’emittente radio la cui frequenza in USSR è oscurata e diffonde quindi notizie per lo più dirette ai numerosi connazionali espatriati in America. Le sue vere ambizioni sono letterarie e questo lavoro, sostiene, serve per mantenere la famiglia e tirare avanti. Una mattina il suo capo lo avverte che hanno organizzato un convegno a Los Angeles dal tema la nuova Russia e il suo futuro, in cui si riunirà il meglio dell’intellegencija sovietica sparsa per il mondo e il cui culmine sarà l’elezione di un presidente in esilio e delle altre inerenti importanti cariche politiche in modo che si possa portare avanti il retaggio della cultura politica, civile e spirituale russa anche in un futuro post-regime. Dalmatov dovrà essere l’inviato de La terza ondata, il nome dell’emittente radio dove conduce il programma Persone e avvenimenti, e sebbene un po’ controvoglia non può far altro che partire direzione Los Angeles.

Il direttore proseguì:
– Un’altra domanda. Dimmi, che ne pensi della Russia del futuro? Ma con franchezza.
– Con franchezza? Niente.
– Sei un tipo singolare tu. Non vuoi andare in California. Non pensi al futuro della Russia.
– Sto ancora cercando di capire il passato… E poi, che c’è da pensare?! Chi vivrà vedrà.
– Chi ci arriverà vivo… – assentì il direttore.

La cronaca di ciò che avviene durante le varie conferenze ricalca lo stile tipico di Dovlatov, intriso di umorismo e mordente che non risparmia né se stesso né gli altri. Emergono tutte le contraddizioni e i vizi che contraddistinguono i russi, e tra questi simpatici teatrini al limite del tragicomico il passato torna a bussare prepotentemente alla porta del giornalista Dalmatov perché tra i presenti si palesa anche Tasja, il suo grande e mai risolto amore risalente a una ventina di anni prima quando entrambi erano ancora in Unione Sovietica. A questo punto la narrazione continua su un doppio binario, indizio già contenuto nell’incipit che fa partire il romanzo con un occhio rivolto al passato:

Mia madre dice che un tempo mi svegliavo col sorriso sulle labbra. Questo avveniva più o meno, devo supporre, nel 1943. Provate a immaginare: tutt’attorno la guerra, i cacciabombardieri, lo sfollamento. E io che me ne stavo sdraiato a sorridere. Adesso è tutto diverso. Da circa vent’anni ormai mi sveglio con una smorfia di disgusto sulla faccia emaciata.

La descrizione di ciò che avviene al convegno è puntellata di numerosi flashback che riportano alla memoria la storia d’amore vissuta da lui e Tasja, un rapporto malsano tuttavia estremamente intenso che lo portò sull’orlo del baratro. Lei è rimasta la solita donna che era allora: eccentrica, viziata, instabile e bellissima. Dalmatov con quella vena malinconica che nei suoi lavori si accompagna alla leggerezza dell’ironia ricorda la sua gioventù, ci accompagna per gli ambienti universitari e i circoli letterari della Leningrado fine anni Sessanta, lui aspirante scrittore e boxeur amatoriale che per lei finì col trascurare gli studi e il suo futuro pur di starle accanto sempre e avere come unico pensiero il loro amore, su cui il richiamo al servizio militare gettò per sempre la parola fine. Che Dovlatov scelga l’amore, e un amore reale perché nella Tasja del romanzo si nasconde Asja Pekurovskaia con la quale Dovlatov ebbe effettivamente la sua prima importante storia d’amore, come argomento principale di una sua opera è peculiare, ma ho trovato estremamente piacevole il racconto di questa parabola dalle prime accecanti infatuazioni fino alla constatazione del fallimento personale, con il sottofondo chiassoso di letterati, giornalisti e politici che si agitano sul futuro della Russia. Anche trattando questo tema, non smentisce la sua vena umoristica e non smette di ricordarci il frivolo nonsense che abbraccia la nostra esistenza e che in qualche modo dobbiamo accettare.

IL PIATTO DEL LIBRO: cari amici slavofili o meno, io ricordo che quando andai in Russia non mangiai affatto male, tuttavia pesce e carne (oltre alla vodka, si capisce) erano abbastanza onnipresenti. Su tutti, i piatti che mi piacquero di più sono sicuramente i bliny, simili a dei pancakes solitamente farciti con panna acida e salmone affumicato o uova di salmone e i pel’meni, ossia dei ravioli con un ripieno tipicamente di carne e serviti anche questi per lo più con panna acida, che insieme alla vodka in Russia mettono un po’ ovunque. Per immergerci nello spirito e nella cultura russa io ho deciso di cucinare una versione plant-based proprio dei pel’meni, preparando la pasta con un misto di farina 00 e semola di grano duro (per renderla più consistente in modo che tenesse il ripieno in cottura vista anche l’assenza di uova nell’impasto) e come ripieno seitan macinato con cipolla e spezie. Non mi sono fatta mancare neanche la panna acida, di cui pure ho fatto una versione totalmente vegetale. Che dire, era la prima volta che preparavo la pasta ripiena a casa e c’è di sicuro margine di miglioramento, ma sono rimasta molto soddisfatta del risultato. Anche per quanto riguarda il gusto, sembrava di tornare alla memoria in uno di quei ristorantini sulla Neva, peccato solo che fuori dalla finestra qui a Milano il panorama fosse un po’ diverso. Vi va di volare in Russia con me? Sotto la ricetta dei nostri pel’meni 100% vegetali.

INGREDIENTI PER 2/3 PERSONE:

Per la pasta:

  • 150 g farina 00
  • 100 g semola di grano duro
  • 118 g acqua (1/2 cup)
  • 2 cucchiai di aquafaba (è l’acqua di cottura dei ceci, io l’ho prelevata dai ceci in barattolo)
  • 1/2 cucchiaino di sale

Per il ripieno:

  • 125 g di seitan
  • 1 cipolla piccolo-media (tritata finemente)
  • 1 spicchio d’aglio (tritato finemente)
  • 1 cucchiaio di salsa di soia
  • paprika affumicata q.b.
  • maggiorana fresca q.b.
  • noce moscata q.b.
  • sale e pepe
  • foglie di aneto per guarnire

Per la panna acida:

  • 200 g di tofu vellutato (lo trovate da NaturaSì o simili)
  • 2 cucchiai di succo di limone
  • 1 cucchiaio di aceto di mele
  • 1 cucchiaio di lievito alimentare
  • 1 pizzico di sale

Per preparare l’impasto, come prima cosa mescolare in una bacinella l’aquafaba con l’acqua. In un’altra ciotola versa la farina setacciata e il sale. Lentamente versare i liquidi nella farina e mescolare. Trasferire l’impasto su un piano di lavoro preferibilmente in legno e continuare a impastare per diversi minuti fino ad ottenere un composto omogeneo ed elastico che mantenga però una certa fermezza perché dovrà essere poi steso sottile. Una volta terminato, lasciare a riposare con un canovaccio sopra per almeno 15 minuti.

Nel frattempo preparare il ripieno: tritate finemente il seitan con un robot da cucina, passatelo almeno un paio di volte e unite poi anche la cipolla, l’aglio e le spezie che potete inserire nella quantità desiderata a seconda del grado di aroma che vorrete ottenere.

Trascorso il tempo di riposo della pasta, prelevatene un terzo e lasciate il resto sotto al canovaccio in modo che non si secchi. Con un mattarello stendente la pasta molto sottile (io non ho una macchina per tirare la sfoglia, nel caso tanto meglio) e con l’aiuto di un coppapasta rotondo ottenete dei cerchi al centro dei quali riporrete un cucchiaino abbondante di impasto. Ripiegate una parte sull’altra facendo pressione ai bordi e infine unite le due estremità per ottenere la forma tipica dei pel’meni. Ripetete questa operazione con tutta la pasta mancante.

Fate cuocere poi in acqua salata bollente per 5-7 minuti e gustateli con della panna acida.

Per prepararla non dovrete fare altro che versare tutti gli ingredienti elencati sopra in un mixer e far andare per un minuto, e la vostra panna acida è immediatamente pronta per essere gustata.

Buchi neri

Chi non ha mai fantasticato di essere l’unico essere umano rimasto sulla Terra? Cosa faresti, come reagiresti? Come ti sentiresti? Guido Morselli nel 1973 provò a drammatizzare questa situazione scrivendo Dissipatio H. G. ovvero l‘evaporazione del genere umano, nientedimeno.

Questo romanzo potrebbe essere inserito nel genere fantascientifico, apocalittico, filosofico, o forse meglio non inserirlo in nessuna categoria, è un ammasso intellettuale di detriti galleggianti. Le circostanze in cui questo romanzo venne scritto sono abbastanza emblematiche, questo perché Morselli si suicidò pochi mesi dopo la stesura (Dissipatio fu pubblicato postumo nel ’77) e in apertura del libro noi troviamo il protagonista che, spinto da una certa repulsione verso il resto del genere umano, ha deciso di porre fine alla propria vita annegandosi in uno strano laghetto in fondo a una caverna, in montagna. Desiste però dal suo intento, il suo corpo sembra non rispondere al suo volere, e decide quindi di lasciare perdere e tornare nella civiltà senonché ad aspettarlo trova solo un mucchio di macchine fantasma, scrivanie senza personale, beni abbandonati. Il giorno dopo si sveglia per capire che intorno a lui non ci sono più essere umani, ma nessuna prova a dimostrarlo, nessun cadavere, come se questi si fossero dispersi nell’aria, solo oggetti abbandonati che in questa solitudine estrema perdono la loro connotazione originale per assumere nuovi significati, come all’interno di un quadro di De Chirico, affascinante e inquietante al tempo stesso.

Tra il suicido e il continuare a vivere non sembra esserci una terza opzione, ebbene Dissipatio H.G. è l’esplorazione di questa non-possibilità. Il protagonista si muove in spazi d’invenzione, ma che sembrano richiamare la Svizzera e dintorni, e vive in una tenuta isolata in una valle di montagna molto simile alla cascina reale dell’autore a Gavirate, ai piedi delle Alpi nel nord della Lombardia (l’autobiografismo nella sua opera è un elemento sempre presente). Se l’avversione verso gli uomini aveva guidato la decisione del protagonista di mettere fine alla propria vita, ora si ritrova effettivamente e completamente solo e si muove in questa terra desolata riempita solo da un silenzio surreale, una sorta di macabro reminder stai attento a quello che desideri. La sopravvivenza in una realtà del genere si rivela straziante, e il protagonista visita aeroporti, hotel, fa chiamate a numeri fantasma e da nessuna parte riesce a trovare anche solo un indizio di quello che è successo e non sa se considerarsi il fortunato eletto oppure se questo possa essere di fatto il risultato del contemplato suicidio. Nessuno è lì per dargli la risposta.

Rileggere un libro come Dissipatio in questi giorni, dopo quello che abbiamo vissuto con il Covid negli ultimi due anni, fa riflettere. Gli spazi deprivati della presenza umana, gli oggetti che assumono una concretezza metafisica, ma non solo, anche la natura che torna a vivere, che si riappropria di ciò che le era stato tolto. Quei mesi di lockdown che abbiamo vissuto sono serviti a diminuire l’inquinamento, alcuni animali si sono ripresi spazi perduti e noi in generale abbiamo iniziato ad apprezzare di più il contatto con la natura. Durato tutto troppo poco, ma anche in Dissipatio si pone l’enfasi su questo aspetto. In assenza di rumore e inquinamento ambientale, gli animali cominciano a popolare gli ex spazi umani, il canto degli uccelli diventa più forte e una certa pace generale prende il sopravvento, la società com’era sembra solo una vecchia, cattiva abitudine.

Insieme a tutto il resto, forse che Morselli fu anche uno scrittore ecologista ante litteram? Forse. Quel che è certo è che un libro del genere può essere letto sotto tanti punti di vista, compreso quello di una evidente nota di suicidio da parte dell’autore, ma non può esimerci dal ripensare alle nostre relazioni con gli altri, a come viviamo nel mondo e come questo potrebbe essere diverso.

Un lungo panico, in principio. E poi, ma tramontata subito, incredulità, e poi di nuovo paura. Adesso l’adattamento. Rassegnazione? Direi proprio accettazione. Con intervalli di proterva ilarità, e di feroce sollievo.

IL PIATTO DEL LIBRO: quando ci si ritrova di fronte a libri di questo calibro, sarebbe davvero magico avere l’autore a tua disposizione per chiedergli, ma cosa avevi in mente quando hai pensato a questo romanzo? Qual è stata la spinta iniziale? Chiaramente non è possibile, quindi si lascia lo spazio alla propria interpretazione. Ci sono delle situazioni, soprattutto quando sono in città e mi trovo imbottigliata nel traffico o cammino per le vie del centro così stracolme di gente, in cui tutto quello che vorrei in quei momenti è un gigantesco buco nero che risucchi tutto l’eccesso che sta su questo pianeta e restituisca il verde, la pace e la solitudine. È questo lo spunto che mi ha portato a creare il piatto che vedete qui sotto, vellutata di lenticchie nere con fiammiferi di foglie di porro.

INGREDIENTI PER 2 PERSONE:

  • 200 g di lenticchie nere
  • 1 pezzo di porro (gambo bianco)
  • foglie di porro tagliate a listarelle q.b.
  • 50 g di carota tritata
  • 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro
  • 1 pizzico di cannella
  • 1 pizzico di noce moscata
  • acqua calda, 3-4 bicchieri
  • olio evo q.b.
  • sale e pepe

Mettere a mollo le lenticchie per un’ora.

In una pentola capiente mettere a soffriggere la carota e il porro con due cucchiai d’olio, dopo qualche minuto aggiungere anche il concentrato di pomodoro (se la verdura rischia di bruciarsi aggiungere un goccio d’acqua). A quel punto, scolare le lenticchie e metterle nella pentola, mescolare bene e aggiungere la cannella e la noce moscata. Versare l’acqua, portare a bollore e abbassare poi la fiamma coprendo con un coperchio. Cuocere finché le lenticchie si saranno ammorbidite, ci vorranno circa 40 minuti, arrivati verso fine cottura salate e a seconda della densità che volete ottenere potete aggiungere altra acqua oppure cuocere a fiamma più alta per addensare ulteriormente i liquidi.

Togliere dal fuoco e passare tutto con il minipimmer per ottenere la crema. Io l’ho guarnita con alcune foglie di porro tagliate a listarelle e fatte friggere nell’olio.

CITAZIONE DAL LIBRO:

A mattina appena fatta, cerco la mia utilitaria, stavolta non ho inibizioni, e la ritrovo, con più una sorpresa che mi pare lieto auspicio: uno stambecco piccino steso fra le ruote, addormentato al riparo della pioggia. La madre, e altri adulti, quattro o cinque, pascolano da presso, sul prato del Kursaal. Non avevo mai incontrato un gruppo così folto di queste bestie, nemmeno in alta montagna. A Klaus, dove la mia valle termina nella pianura, costeggio uno stabilimento. Sulla cinta una scritta cubitale: I nostri detersivi sono biodegradabili al 93%. – Nel frattempo, fabbricanti e clienti sono stati biodegradati al 100%. Gli stambecchi se ne accorgono e ne approfittano.

La felicità sulle montagne

La felicità del lupo è il nuovo libro di Paolo Cognetti che ancora una volta ci trasporta sulle montagne. Non conosco molto della sua vita privata, ma ho subito avuto la sensazione che ci sia dentro molto di autobiografico. Parla di Fausto, quarantenne appena separato dalla fidanzata con cui condivideva un appartamento a Milano che decide di rifugiarsi sulle montagne per trovare riparo e conforto dalla delusione generale che sembra permeare la sua vita in quel momento sul fronte affettivo, lavorativo e d’ambiente. Va a Fontana Fredda, luogo che conosce fin da bambino, si perde tra camminate e taccuini scarabocchiati e si improvvisa poi cuoco nel ristorante di Babette, anche lei fuggita da Milano tanto tempo prima e con cui Fausto sembra subito trovarsi in sintonia. A servire ai tavoli c’è Silvia, ventisette anni, anche lei irrequieta e in cerca di soluzioni per la propria vita. Tra i due scatta subito qualcosa e inizia una relazione che entrambi sanno potrebbe finire a breve ma nel frattempo scalda il loro lungo inverno a Fontana Fredda tra neve e piatti di polenta cucinati per gli sciatori e gli operai degli impianti. Silvia non sa ancora se la montagna è il suo desiderio di una vita o un rifugio temporaneo, intanto una volta arrivata l’estate, mentre Fausto lavora sempre come cuoco ma questa volta per i taglialegna, decide di prestare servizio allo storico rifugio Quintino Sella ai piedi del Felik, vetta del massiccio del Monte Rosa, dove Fausto va a trovarla appena riesce.

Nel racconto di questo segmento delle loro vite, e di tutti i personaggi che gli gravitano attorno, la montagna sembra assumere lo stesso ruolo delle montagne nelle stampe di Hokusai di cui si parla nel libro. Massicce e silenti osservatrici, impermeabili di fronte ai piccoli e grandi sconvolgimenti che le circondano, affascinanti e imprendibili nella loro imponenza, che sembra essere fatta per ricordarci quanto in fondo si perda in piccolo sciocchezze la nostra esistenza. La scrittura di Cognetti è leggera, limpida, lo è sempre stata e continua a esserlo anche adesso che il suo panorama è cambiato e si è elevato di quota. Fausto nella sua vita faceva lo scrittore e scriveva per lo più di donne, uomini e amori, storie che ormai non gli sembrano nemmeno più sue, adesso vuole parlare della natura, di un torrente di notte e di un cervo che si avvicina per bere. La parabola di Cognetti sembra simile, è lontano il tempo di Manuale per ragazze di successo, ma le dinamiche dei suoi personaggi vengono ancora trattate con la stessa finezza psicologica e l’intimità di sempre. Fausto nel dialogo con la natura ha ritrovato il sapore della vita, delle relazioni umane sincere, il desiderio della corporalità, ha riscoperto che le cose a volte semplicemente esistono in sé e per sé e non c’è nessuna filosofia o nostalgia pronta a palesarsi, tutti aspetti che a Milano erano stati schiacciati e persi nel traffico e nello smog e Cognetti sa restituircelo con immediatezza tramite il racconto di questa storia semplice. È diventato un po’ il Rigoni Stern della nostra generazione con un passato più mondano, e personalmente leggendolo ci ritrovo quella sensazione di tepore che si prova arrivando in un rifugio caldo dopo una camminata lunga e stancante.

È così che devono essere i rifugi.

IL PIATTO DEL LIBRO: In questo romanzo la cucina è molto presente proprio per il fatto che Fausto rinasce in veste di cuoco, prima nel ristorante di Babette e poi per i taglialegna d’estate nel bosco. Il fatto di sapere fare da mangiare diventa il suo tratto distintivo tra i montanari del luogo, che in questo modo vedono anche più di buon occhio l’incursione di questo forestiero nella loro piccola comunità. In un passo del libro si dice: “ecco un paio di lezioni che Fontana Fredda stava dando a Fausto Dalmasso, lo scrittore. Uno: c’è sempre bisogno di qualcuno che faccia da mangiare; di qualcuno che scriva, non sempre”. Nei menu di montagna sappiamo tutti che la carne è ovunque, quando vado in montagna la maggior parte delle volte sopravvivo grazie ai funghi, quindi grazie funghi di esistere!, e memore delle mie mille passeggiate sulle cime che non mi sembrano mai abbastanza, ho preparato un piatto di tagliatelle ai funghi porcini.

INGREDIENTI PER 2 PERSONE:

  • 200 g di tagliatelle di kamut
  • 150 g di funghi porcini (se non li trovate freschi che sarebbe il meglio, potete optare per quelli surgelati)
  • 1 spicchio di aglio
  • 1 ciuffo di prezzemolo
  • sale e pepe

Mettete a soffriggere l’aglio in una padella con un po’ di olio, quando ha preso sapore aggiungete anche i funghi porcini tagliati a cubettoni. Fateli saltare per qualche minuto a fiamma viva, salate e abbassate la fiamma lasciando cuocere i funghi per 10-15 minuti nei loro liquidi fino a totale evaporazione. Nel frattempo cuocete la pasta in abbondante acqua salata avendo riguardo di tenere da parte un bicchiere di acqua di cottura da utilizzare poi quando verrà fatta saltare insieme ai funghi per ottenere un sughetto cremoso. A questo proposito potete aggiungere anche un pizzico di amido di mais. Servite le tagliatelle ben calde aggiungendo in ultimo il prezzemolo.

CITAZIONE DAL LIBRO:

Ma tu che ci sei stato tante volte, l’hai capito perché ci vanno? Che cosa c’è su di là?
Vento.
E neve.
E poi?
Magari il sole. Se non ci sono le nuvole!
Lo Sherpa rise. Due volte l’Everest, ma era impossibile estorcergli una qualche filosofia. A parlare con lui tutto sembrava semplicemente stare al mondo: secchio, straccio, vento, sole, neve.

Dostoevskij, lo scrittore del giallo

Ci sono due pregiudizi in particolare che vorrei estirpare dalla testa delle persone. Il primo è che i broccoletti non siano anche buonissimi oltre che sani, il secondo è che la letteratura russia sia un noioso mattone. Niente di più falso. Nel tentativo di spiegarvi perché, ho ripreso in mano uno dei suoi più grandi classici, Delitto e castigo.

Questo anche perché vorrei restituire un connubio tra letteratura e cucina che non sia necessariamente legato solo alla nazionalità dell’autore o all’ambientazione del libro. È possibile infatti ritrovare, soprattutto nella grande letteratura, un incredibile gioco dei sensi che va a supportare e innalzare il semplice impianto narrativo. Dostoevskij in particolare è famoso per certe ambientazioni che ha saputo creare nei suoi romanzi in cui si percepisce un senso di claustrofobia o asfissia che spesso risulta uno specchio di ciò che accade nella mente dei suoi protagonisti. Delitto e castigo stesso ha un incipit che immediatamente vuole afferrare il lettore e immergerlo nell’atmosfera del romanzo: “All’inizio di un luglio straordinariamente caldo”. Ci dimentichiamo subito della Russia dei grandi freddi per iniziare a provare quel senso di soffocamento dato da un’eccessiva umidità o afosità estiva, che ti obnubila la mente e mette in allerta il sistema nervoso. Questo è il quadro in cui viaggeremo, almeno nella prima parte (e diciamocelo, quella più interessante) del romanzo e Dostoevskij lo mette bene in chiaro fin da subito. “Per strada c’era una caldo soffocante, afoso, e c’era gente dappertutto, dovunque c’era calce, legno, mattoni, polvere, e quel particolare lezzo estivo, così familiare a tutti gli abitanti di Pietroburgo che non abbiano la possibilità di affittarsi una dacia: tutto ciò improvvisamente scosse i nervi del giovane che erano già piuttosto tesi.”

Dostoevskij è poi lo scrittore del giallo non tanto perché, soprattutto in Delitto e castigo, mette in scena un omicidio, ma perché Pietroburgo, la città dove sono ambientati tanti dei suoi romanzi compreso gran parte di questo, è lo scenario perfetto per la follia dei suoi protagonisti. Non è la Pietroburgo dagli scenari grandiosi, ma una Pietroburgo fatta di piccoli vicoli, di mansarde, di povera gente che ogni giorno fa i conti con la vita, è una città colorata di giallo, il colore predominante di ogni sua descrizione, il coloro della malattia, della carta da parati giallognola e polverosa che si stacca dalle pareti dello stanzino in cui sta in affitto il giovane Raskòl’nikov.

La storia ormai la conoscete tutti. Rodiòn Romànovič Raskòl’nikov, ex studente di legge costretto ad abbandonare gli studi per problemi economici, spinto dall’indigenza e da un livore generale verso la società che lo circonda decide di uccidere una vecchia usuraia di sua conoscenza, nella convinzione che certe persone straordinarie abbiano il diritto di andare al di là della morale impunite, ossia commettere atti volti a delinquere purché vi sia un fine superiore a giustificarli, questo secondo Rodja divide gli uomini ordinari dal superuomo di stampo nietzschiano. Salvo poi, una volta commesso il delitto, duplice perché ne risulta vittima anche la sorella dell’usuraia, essere divorato dalla paranoia e dalla desolazione psicologica che quest’azione scatenano nel giovane, salvato poi solo dall’incontro con Sonja, un’anima pura e caritatevole, costretta a prostituirsi per mantenere la famiglia, che lo condurrà nell’epilogo sulla via del pentimento e della salvezza.

Ma perché ancora oggi, a più di 150 anni dalla sua pubblicazione, rimane un libro da leggere? Ci sono diversi motivi. Uno di questi è che Dostoevskij fu uno dei primi scrittori a restituire una descrizione della psiche umana e dei suoi meccanismi tanto straordinariamente accurata da risultare quasi fastidiosa e difficilmente altri dopo di lui riuscirono a farlo altrettanto bene. Leggendo non possiamo fare a meno di immedesimarci nei ragionamenti del protagonista e condividerne manie e tormenti. Dostoevskij fu il primo scrittore a essere in grado di mettere in scena uno dei tratti fondamentali che caratterizza l’uomo, la scissione dell’io, e ciò che lo rende un classico è il fatto che i temi da lui trattati non siano invecchiati, che la nevrosi degli uomini del sottosuolo dostoevskiani sia la medesima che colpisce l’uomo moderno. Il nome stesso del protagonista, Raskòl’nikov, deriva dal verbo russo раскалывать che significa spaccare, scindere. Il disprezzo e la frustrazione verso la propria condizione misera che lo portano ad avere sentimenti contrastanti nei confronti della società, a metterne in discussione lo status quo, a ridisegnarne le regole sono assolutamente contemporanei. Raskòl’nikov è un uomo in cui, come in ciascuno di noi, convivono sentimenti contrastanti, a volte estremi: la freddezza dell’omicidio derivata dalla riflessione e un’isteria quasi paralizzante, il cinismo e il pentimento, la rabbia e un sentimentalismo pervasivo. L’atto criminale da lui commesso non è fine a sé stesso, ma il culmine di un ragionamento che vuole raggirare una morale dominante che per l’uomo spesso risulta mortifera e ingiusta. Raskòl’nikov uccide perché vuole dimostrare la potenza della razionalità sull’ordine prestabilito e risulta sconfitto non tanto perché pentito del delitto in sé per sé, ma perché non si è rivelato in grado di essere il superuomo che pensava di potere essere, non ne ha sostenuto il peso.

Mi riesce molto difficile, ma viene fatto spesso, incasellare un romanzo come Delitto e castigo nella chiave di lettura della sofferenza cristiana che porta alla salvezza; a mio parere il fascino più grande dei personaggi di Dostoevskij, quello che ti tiene davvero attaccato alla pagina, è che come nei grandi amori non corrisposti risultano inafferrabili. Nella loro complessità imprendibili. Dialogano con il lettore, lo rendono parte delle proprie riflessioni, delle proprie spaccature, ma non si lasciano mai intrappolare in una definizione, è impossibile tracciarne con chiarezza i limiti e questo è quello che ci fa innamorare di loro.

Come infarinatura generale direi che per questa volta può bastare.

IL PIATTO DEL LIBRO: questa volta ho deciso di puntare sul senso della vista, di giocare con l’uso del colore giallo che Dostoevskij fa nei suoi romanzi, che come detto poco sopra simboleggia la povertà, la malattia – soprattutto dei nervi – che coglie il protagonista e sembra riflettersi come in uno specchio anche nella città che lo circonda. Un tema che trova un parallelismo importante, sebbene probabilmente del tutto casuale, nell’uso del giallo che per esempio fa un pittore come Van Gogh, anche lui affetto da problemi di salute mentale. Così ho preso in rassegna tutti gli ingredienti gialli che mi venivano in mente e mi sono fermata sullo zafferano. E da buona milanese importata, ecco quindi per voi una semplice ricetta di un risotto plant-based allo zafferano.

INGREDIENTI PER 2-3 PERSONE:

  • 220 g riso carnaroli
  • 1 bustina di zafferano
  • burro vegetale q.b.
  • 1/2 cipolla per soffritto
  • 1/2 bicchiere vino bianco secco
  • 1 carota, 1 cipolla, 1 gambo di sedano per fare il brodo vegetale
  • lievito alimentare q.b.
  • funghi chiodini

Per prima cosa preparate il brodo vegetale mettendo sul fuoco in circa 800 ml di acqua le verdure tagliate a pezzi, portate a ebollizione e mantenete il brodo sulla fiamma bassa accesa per tutto il tempo della preparazione del risotto, è fondamentale che mantenga il calore.

In una padella fate tostare il riso a secco per due, tre minuti a fiamma viva finché non rilascerà il suo aroma, è importante per aprire i chicchi e fare in modo che assorbano meglio i liquidi. Togliete poi il riso e nella stessa padella fate appassire insieme a un mestolo di brodo una cipolla tagliata molto finemente (io la trito con il mini-pimmer) avendo cura che non si bruci.

Aggiungete poi il riso precedentemente tostato e lasciate insaporire, versate quindi il vino e fatelo evaporare mantenendo un fuoco vivace. Di seguito aggiungete due mestoli di brodo alla volta aspettando che si asciughi quasi totalmente prima di aggiungerne dell’altro. A circa dieci minuti dalla cottura aggiungete anche lo zafferano sciolto con un po’ di brodo caldo. A cottura del riso ultimata togliete dal fuoco e mantecate con una noce di burro vegetale e una spolverata di lievito alimentare. Potete mantenere una consistenza più o meno liquida lavorando sul brodo.

A guarnire ho aggiunto dei funghi chiodini fatti saltare in padella.

Buon autunno e buona lettura! Non dimenticatevi di leggere la citazione dal libro scelta per voi più sotto…

CITAZIONE DAL LIBRO:

« […] Più semplicemente alludevo al fatto che l’uomo “straordinario” ha il diritto… ovvero, non un diritto ufficiale, ma lui stesso è in possesso del diritto di permettere alla sua coscienza di superare… certi ostacoli, e unicamente nel caso che la realizzazione della sua idea (che alle volte può essere salvifica per l’intera umanità) lo esiga. Voi avete avuto la compiacenza di affermare che il mio articolo è poco chiaro; sono pronto a chiarirvelo, nella misura delle mie possibilità. Forse non sbaglio supponendo che voi vogliate proprio questo; ma prego… Secondo me, se le scoperte di Keplero e Newton, a seguito di certe macchinazioni, non avessero potuto in alcun modo diventare note alla gente se non con il sacrificio della vita di uno, dieci, cento e più uomini che ne avessero impedito la diffusione o che si fossero frapposti lungo il loro cammino in qualità di ostacoli, allora Newton avrebbe avuto il diritto, e sarebbe persino stato obbligato a… togliere di mezzo questi dieci o cento uomini per render note le sue scoperte all’intera umanità. Da ciò d’altronde non consegue che Newton avesse il diritto di ammazzare chi voleva, il primo venuto, o di rubare ogni giorno al mercato. Più avanti, se non ricordo male, nel mio articolo sviluppo l’idea che tutti… be’ per esempio mettiamo anche solo i legislatori e gli orientatori dell’umanità, a partire dagli antichi, continuando con i vari Licurgo, Solone, Maometto, Napoleone e così via, tutti fino all’ultimo erano dei delinquenti, anche per il solo fatto che, dando all’uomo una nuova legge, con questo hanno infranto la legge antica, santamente venerata dalla società e trasmessa dai padri, e, tuttavia, non si sono fermati davanti al sangue, se solo il sangue (alle volte del tutto innocente e versato con eroismo per l’antica legge) poteva esser loro d’aiuto. È persino sorprendente che una gran parte di questi benefattori e orientatori dell’umanità siano stati dei massacratori particolarmente terribili. In una parola, io dimostro che tutte le persone, non solo quelle grandi, ma quelle che appena appena escono dalla norma, cioè persino quelle appena in grado di dire qualcosa di nuovo, devono, per loro natura, essere dei delinquenti, in misura minora o maggiore, s’intende. In una parola, vedete che fino a questo punto non c’è niente di particolarmente nuovo. Per quel che riguarda la mia suddivisione delle persone in ordinarie e straordinarie, sono d’accordo che sia alquanto arbitraria, ma non insisto certo su un numero preciso. Io mi limito a credere nel mio pensiero fondamentale. Esso consiste precisamente nel fatto che la gente, per una legge di natura, si divide generalmente in due categorie: una inferiore (gli ordinari), ovvero, per così dire, il materiale utile unicamente alla procreazione di qualcosa di simile a se stesso, e un’altra che è quella degli uomini, ovvero di coloro in possesso del dono o del talento di dire la loro parola nuova nell’ambiente. A questo punto s’intende che le suddivisioni sono infinite, ma i tratti distintivi di entrambe le categorie sono abbastanza netti: la prima categoria, ovvero il materiale, parlando in termini generali consiste in persone per loro natura conservatrici, ammodo, che vivono nell’obbedienza e amano essere obbedienti. Secondo me sono persino costrette a essere obbedienti, perché tale è la loro destinazione, e in questo per loro non c’è assolutamente nulla di umiliante. Nella seconda categoria, invece, tutti violano la legge, sono dei distruttori, o sono inclini a esserlo, a seconda della capacità. S’intende che i delitti di queste persone sono relativi, e dei più vari; perlopiù essi esigono, nelle forme più svariate, la distruzione del presente in nome di qualcosa di migliore. […] D’altronde non c’è molto di cui preoccuparsi: la massa quasi mai riconosce loro questo diritto, perlopiù li giustizia e li impicca, e in tal modo adempie in modo assolutamente corretto al proprio destino conservatore, col che, tuttavia, nelle generazioni successive quella stessa massa perlopiù metterà i giustiziati su un piedistallo e si inchinerà loro. La prima categoria è sempre signora del presente, la seconda categoria è signora del futuro. I primi conservano il mondo e l’accrescono numericamente; i secondi muovono il mondo e lo conducono verso una meta. Tanto questi che quelli hanno esattamente lo stesso diritto di esistere. In una parola, per me tutti hanno un diritto equivalente, e vive la guerre éternelle, fino alla nuova Gerusalemme, s’intende!»