I miei stupidi intenti di Bernardo Zannoni

Una faina che racconta la storia della propria vita all’interno di un bosco popolato da animali che vivono all’apparenza una vita pressoché antropomorfizzata: le loro tane hanno cucine e camere da letto, ciascun membro della famiglia vanta un nome proprio e ci sono medici e usurai che ci parlano di istituzioni sociali ed economiche rudimentali.

Il protagonista, Archie, è una faina che diventa zoppa dopo avere tentato di rubare delle uova che si trovavano in cima a un alto albero: diventato inutile agli occhi della madre che non prova un minimo di affetto nei confronti del figlio decide di venderlo alla volpe Solomon in cambio di qualche gallina da mangiare. Solomon è un usuraio, grazie alla sua astuzia e a un cane da guardia, Gioele, che sta sempre al suo fianco e si occupa di andare a sistemare eventuali debiti insoluti, si è guadagnato il rispetto e la riverenza di tutti gli animali del bosco. Archie diventa il suo apprendista e dopo un inizio non facile tra i due, Solomon inizia a vedere in lui delle potenzialità e pian piano lo introduce alle sue passioni legate alla sfera dell’essere umano, che da sempre ha giocato un enorme fascino su Solomon. Presto capiamo infatti che la volpe non è un animale come tutti gli altri: ha coscienza del tempo, ha imparato a leggere e a scrivere e crede in Dio.

Il grande monolite intorno a cui gira l’intero romanzo è questa dicotomia tra uomini e animali. Da una parte c’è il regno della sopravvivenza a tutti i costi, dell’istinto, della ferinità; dall’altro quello della consapevolezza del nostro essere transeunti, destinati a condurre una vita breve e piena di dolore in cui le pene possono essere alleviate dalla fede in un Dio di cui in fondo non abbiamo le prove dell’esistenza oppure dal piacere di trasporre le nostre avventure tramite la scrittura e renderle in questo modo eterne.

Archie non sembra in fondo guadagnarci molto da tutto questo bagaglio di conoscenza che Solomon gli lascia in eredità: si configura sì come un essere speciale, ma pur sempre in precario equilibrio tra un mondo di sentimenti tutti umani e un istinto animale che lo porterebbe persino a mangiare i suoi figli per non morire di fame durante il rigido inverno. Resta infine solo, vecchio, orfano ormai di quella beata incoscienza animale sostituita dalla chiara consapevolezza che presto dovrà morire, il suo ultimo lascito al mondo è la scrittura delle sue memorie che lascerà in custodia al suo unico amico rimasto, un istrice che lo ha salvato da un pericoloso incendio, nella speranza che questo gesto renda significativa la sua breve permanenza su questa terra.

Qual è il messaggio ultimo che il romanzo ci vuole dare: forse che sia meglio restare protetti dall’ignoranza e non giungere mai al sapere? Che dovremmo rivedere e accettare con maggiore imperturbabilità certe “violenze” dell’esistenza perché si insinuano in fondo nel semplice cerchio naturale dal quale proveniamo? O al contrario rivalutare l’anelito dell’uomo di giungere al Vero che lo differenzia da qualsiasi altro animale? Resta al lettore decidere. Quel che è certo è che alcuni atteggiamenti umani rivisti in questa chiave animale non possono che farci riflettere, perché li vediamo attraverso una prospettiva inedita e a cui non siamo abituati. Una prospettiva narrativa sicuramente originale, ma non innovativa perché si tratta di un espediente già visto nel panorama letterario: si pensi al celebre racconto di Tolstoj Cholstomér in cui la voce narrante è quella di un cavallo. Si tratta di una pratica artistico-letteraria che i formalisti russi chiamavano straniamento: sottrarre la materia narrata alla convenzionalità della prospettiva canonica e presentarla invece sotto una nuova luce.

La grande ambizione di questo romanzo risulta in ultima analisi anche la sua zavorra: troppi grandi temi messi sul tavolo – Dio, il sapere, il potere taumaturgico della letteratura che rende eterni, la diade uomo-animale – che donano sì una sorta di epicità alla narrazione, ma senza trovare il giusto respiro. C’è qualcosa di potente nell’imperfezione di questo testo, che colpisce, tuttavia il coltello non affonda abbastanza e le riflessioni che scatenano scivolano spesso nell’ingenuità e nello stereotipo anche per via della assoluta aderenza alla tradizione con con la quale vengono raccontati. Un esordio narrativo i cui meriti vanno riconosciuti, ma che non mi ha fatto saltare in piedi dalla gioia. Mi riservo di leggere anche gli altri libri finalisti del Campiello vinto appunto da Zannoni con I miei stupidi intenti.

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Vi lascio una ricetta semplicissima che profuma di bosco perché ha come protagonista i funghi. È la stagione giusta: cucinateli più che potete, tanto più che sono ricchi di triptofano che dà origine alla serotonina, neurotrasmettitore che regola l’umore, l’aggressività, il comportamento sessuale, la sensibilità al dolore, il ciclo sonno-veglia e favorisce la distensione e il rilassamento.

ORZO PERLATO CON FUNGHI SHIITAKE E TEMPEH GRIGLIATO

Ho pulito i funghi Shiitake eliminando il gambo (se li volete freschi io li ho trovati per esempio da Naturasì, secchi li trovate nei maggiori supermercati etnici come per esempio Kathay a Milano). Ho messo l’orzo a cuocere e nel frattempo ho tagliato i funghi a listarelle e li ho fatti cuocere in padella qualche minuto con un po’ di olio e aglio, ho lasciato che si asciugassero e ho aggiunto poi il tempeh sempre tagliato a listarelle (io ho preso ancora una volta da Naturasì quello già grigliato), ho condito con un goccio di salsa di soia e ho lasciato cuocere per altri 10 minuti. Dopo avere unito l’orzo cotto con i funghi e il tempeh, ho aggiunto anche della rucola fresca.

Una moda sostenibile, amare i propri vestiti.

Attenzione, spoiler alert: se leggete questo libro vi passerà la voglia di andare a fare shopping, o per lo meno non di certo con la leggerezza con cui magari lo facevate prima. E se siete grandi fautrici o fautori del decluttering, anche quello inizierà ad andarvi un po’ di traverso.

Orsola de Castro, regina dell’upcycling, mette nero su bianco gli spaventosi numeri di produzione che popolano l’attuale panorama della moda. Spesso il dibattito verte sul cibo, sui suoi sprechi, sul suo impatto ambientale e sull’orrore degli allevamenti intensivi, ma anche il mondo della moda sta lasciando un’impronta pesante sul nostro pianeta, che ha distrutto per sempre vecchi equilibri. Tra tutti, un dato mi è rimasto impresso particolarmente e posso citarlo senza andare a ripescarlo tra le pagine: ogni anno, solo a New York, viene gettata via una mole di vestiti pari a 440 Statue della Libertà (non so se ci rendiamo conto!). Vestiti che sono stati prodotti nella stragrande maggioranza dei casi in una supply chain poco trasparente, da operai e operaie sotto pagati, per cui sono stati utilizzati materiali inquinanti in fase di produzione e che sono finiti a ingombrare, invenduti, i negozi di fast fashion o simili, oppure che abbiamo comprato cedendo a un capriccio del momento perché tanto costavano poco per poi metterli una volta e abbandonarli, capi prodotti in condizioni di lavoro ingiuste e che paradossalmente sono risultati del tutto inutili in ottica dell’uso che ne è stato fatto, ma che di fatto esistono, sono lì a prendere spazio, un mattoncino di quelle Statue della Libertà non biodegradabili, spazzatura piena di plastica la cui permanenza sul pianeta è inversamente proporzionale alla leggerezza con cui ce ne siamo liberati.

È così, tutto il libro della de Castro si basa su questo troppo che gira intorno al mondo della moda e inquina le nostre vite suggerendo best practices e indicazioni per cercare di contenere i danni e fare di più con meno. Le limitazioni non devono essere viste necessariamente come restrizioni, ma come occasioni per stimolare soluzioni creative. Inoltre, non si tratta solo di smettere di comprare o comprare meglio, il messaggio che si vuole far passare – o per lo meno quello che è arrivato a me più forte – è di instaurare un nuovo rapporto con i nostri vestiti, renderli davvero nostri, amarli, costruire delle storie intorno a loro. Questo anche tramite l’arte della riparazione creativa, del ricamo, del rammendo volto a dare nuova vita ai nostri abiti. Se un vestito non ci piace più o se ha dei buchi o dei difetti, prima di buttarlo via senza neanche pensarci proviamo almeno a resuscitarlo in qualche modo per evitare di creare nuova spazzatura inutile. E se proprio dobbiamo comprare, ragioniamo su quello che stiamo comprando: andiamo a indagare i materiali di cui è composto, la sua provenienza, prediligiamo la seconda mano così da non aumentare la richiesta folle di nuovi capi da immettere nel mercato come se già non ce ne fossero abbastanza, scambiamoci i vestiti.

Essere chic nel 2022 non significa avere l’armadio pieno di vestiti diversi e sempre nuovi aggiornati alla moda del momento, ma portare fieramente il proprio maglione liso e i propri pantaloni consumati, che abbiamo messo fino allo sfinimento perché ci piacciono e raccontano qualcosa di noi. Essere chic, o come lo vogliamo chiamare, non potrà mai identificarsi in uno shopping non ragionato, semplicemente perché il nostro pianeta non lo sostiene più e ci sta implorando di continuare a utilizzare ciò che abbiamo già nell’armadio o comprare solo lo stretto necessario. Ci sta chiedendo di riutilizzare manodopera adesso male indirizzata verso mansioni più intelligenti che tornino indietro a un sapere pratico e artigianale o che organizzino la supply chain in maniera diversa in modo che si possa instaurare davvero un tipo di produzione circolare che punta tutto sul riciclo.

Sarebbe sbagliato pensare alla sostenibilità come a una tendenza passeggera, anzi è vero proprio il contrario: in quanto essenziale per la nostra sopravvivenza ed evoluzione, la sostenibilità è una tendenza da centinaia di migliaia di anni. Sostenibilità significa equilibrio, qualità e rispetto. Non ci nega nulla e ci fornisce tutto. Ci parla di gratitudine invece che di avidità, d’intraprendenza invece che di sfruttamento. L’eccesso, ecco cosa fa tendenza, ma è una tendenza di cui dobbiamo disfarci al più presto, se non vogliamo diventare gli strumenti della nostra stessa fine.

Interessante anche la sezione in cui viene fatto un lungo e dettagliato excursus sui principali tipi di fibre, sintetiche e non, con cui vengono prodotti i vestiti. Parlando per me stessa, devo dire che non avevo una grande consapevolezza delle sostanze chimiche contenute nei vestiti con cui la mia pelle viene in contatto, che è un tema strettamente legato anche al lavaggio. Durante i lavaggi in lavatrice i vestiti sintetici fatti per esempio in poliestere rilasciano un sacco di microplastiche che vanno a finire nello scarico, di conseguenza nelle falde acquifere, evaporano e ricadono poi sulla terra sotto forma di pioggia ed ecco spiegati i famosi ritrovamenti di microplastiche sulla cima dell’Everest. Anche su questo punto, Orsola de Castro ci invita a un utilizzo moderato della lavatrice, insegnandoci qualche trucchetto qua e là per rimuovere le macchie manualmente o rigenerare i jeans con il vapore. Quali sono invece tra tutte le fibre su cui puntare di più? Di recente gli attivisti sono tornati alla terra ponendo attenzione alle colture biodinamiche e altri sistemi tradizionali che stanno tornando in auge un po’ in tutto il mondo, ciò significa piantare fibre come il cotone, il lino e la canapa, e coltivarle biologicamente.

Se siamo sensibili sul tema del cibo, non possiamo ignorare quello che sta succedendo anche nel mondo della moda perché le logiche con cui i due mercati si stanno evolvendo sono spaventosamente simili. La finanziarizzazione del cibo è la stessa che sta avvenendo per il prodotto moda. Se un tempo c’era trasparenza sulle materie prime e sui luoghi di produzione, ora è diventato tutto opaco, la conoscenza del prodotto si è persa. Non ci si concentra più sulla qualità e il confezionamento del prodotto, ma sulla costruzione del brand, sull’identità di marchio il cui unico scopo è vendere e arricchire le aziende che stanno dietro a tutto questo. Come dice la de Castro, è la separazione delle persone dal prodotto a causare la totale indifferenza con cui guardiamo alla violazione dei diritti umani: se non riusciamo a capire con quanta fatica e con quanti danni ambientali si produce un vestito è più facile continuare ad acquistarli con leggerezza. E la stessa identica cosa succede per il cibo, con le aziende di marketing che cercano di allontanare quanto più possibile il consumatore finale dalla realtà in cui quel bacon o quella bistecca sono state prodotte.

Amare la moda e apprezzarla per le sue molteplici funzioni implica cambiare modo di ragionare e considerare il fine vita degli indumenti una massima priorità, perché l’unico modo per rimediare agli effetti disastrosi del nostro atteggiamento attuale nei confronti dell’usa-e-getta è chiedersi in primo luogo cosa sono i rifiuti, poi pensare alla longevità dei nostri vestiti – e a un loro uso efficiente – in modo da prolungarne la vita il più possibile. Dobbiamo riparare, riadattare e rindossare, non solo come individui ma in modo sistematico, come società. Il fine vita degli indumenti dovrebbe essere una responsabilità condivisa: i brand devono produrre capi durevoli e riciclabili; i governi locali devono mettere a disposizione impianti di riciclo adeguati, sostenendo le infrastrutture locali in modo che le sartorie in grado di eseguire riparazioni si diffondano sul territorio; e i cittadini devono comprare in modo ragionevole e prendersi cura dei loro vestiti, oltre a favorire attività come lo scambio e il noleggio, in modo da non buttare via capi ancora in buono stato.

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Per onorare lo spirito di sostenibilità che anima questo libro, ho deciso di preparare questa volta una ricetta che non comportasse l’acquisto di nessun ingrediente, usando solo quello che già era nel mio frigorifero o nella mia dispensa. Spesso è facile, spinti dal desiderio di fare nuove ricette che abbiamo visto in giro o ci sono venute in mente, andare a comprare nuovi ingredienti – a volte strambi e quasi introvabili che poi non useremo mai più – quando in realtà a casa abbiamo un sacco di cibo ancora da utilizzare. La torta salata mi è sembrata una scelta indicata perché ci puoi mettere dentro tante cose che magari sono in scadenza oppure sono ormai da tempo dimenticate nelle file più nascoste della dispensa. Non ci sono regole, ognuno può dare sfogo alla propria creatività. La pasta per la torta salata si può benissimo fare in casa, ma io per una questione di tempi ne ho utilizzata una già pronta, ne compro un rotolo praticamente ogni settimana quando vado a fare la spesa principale perché so che, appunto, prima o poi arriverà verso fine settimana la necessità di una ricetta svuota frigo.

In particolare, ho seguito le linee guida di una torta salata che avevo visto sul sito di Vegolosi: ai funghi e alle lenticchie. Coi suoi colori che ci ricordano la terra, con un tocco di verde vegetale, è la perfetta ricetta zero waste. Vi lascio la ricetta qui sotto.

INGREDIENTI:

  • 100 g lenticchie (io ho usato quelle in scatola)
  • 100 g funghi champignon
  • 100 g funghi secchi
  • 1 patata
  • 1 zucchina grande
  • 1 cipollotto
  • 1 spicchio d’aglio
  • 1 cucchiaino zenzero in polvere
  • olio evo
  • sale e pepe q.b.
  • 1 rotolo di pasta sfoglia
  • come strumento: frullatore a immersione

PROCEDIMENTO:

  • Lasciare in ammollo i funghi secchi per 30 minuti, terminato il tempo scolarli, strizzarli e tagliarli grossolanamente.
  • Pelare una patata e tagliarla a dadini, bollirla per 15 minuti e scolare.
  • Tagliare finemente il cipollotto.
  • Tagliare grossolanamente i funghi champignon.
  • Scaldare uno spicchio d’aglio in padella con un po’ di olio evo.
  • Aggiungere poi la cipolla, i funghi e cuocere per una decina di minuti salando il tutto.
  • In una ciotola con un frullatore a immersione ridurre a crema la patata insieme a 1/3 delle lenticchie e 1/3 dei funghi cotti.
  • Aggiungere anche i funghi e le lenticchie rimanenti, lo zenzero in polvere e mescolare.
  • Nel frattempo cuocere una zucchina tagliata a rondelle.
  • Stendere il rotolo di pasta sfoglia e bucherellare la superficie.
  • Unire la crema di lenticchie e funghi adagiando le fettine di zucchina in superficie.
  • Cuocere per 20 minuti in forno preriscaladato a 200°.

Ricorda con rabbia, e gusto

Don’t look back in anger, I heard you say cantavano gli Oasis. John Osborne invece la rabbia ce la mette e tanta.

Oggi volevo parlarvi di questo testo teatrale in cui sono inciampata per caso scorrendo la libreria del mio fiancè e che mi ha ricordato quanto possa essere bello anche il teatro. Mi ha ricordato anche i tempi in cui facevo corsi di scrittura creativa e tutti immancabilmente dicevano che per imparare a scrivere dei dialoghi credibili ed efficaci è necessario leggere tanto buon teatro.

Questa pièce si colloca nell’Inghilterra degli anni ’50. Entriamo nell’appartamento di Alison e Jimmy Porter, una giovane coppia sposata da tre anni che vive con pochi mezzi insieme a Cliff Lewis, amico intimo di Jimmy. Alison viene da una famiglia dell’alta borghesia, Jimmy è un working class man di grande cultura, che disprezza tutti i valori che la famiglia di Alison incarna.

Jimmy è un personaggio sfuggente con cui risulta allo stesso tempo facile e difficile empatizzare, è l’incarnazione di quella rabbia di cui si parla nel titolo. È sincero fino a essere crudele, irrequieto, pressante, alla costante ricerca di pretesti contro cui inveire, che siano episodi di cronaca o tratti delle persone che stanno a lui vicine, è a momenti violento, ma di quella violenza che sottintende una grande vulnerabilità.

Alison appare più dimessa, rassegnata, circondata da un alone di contegnoso disdegno. È incinta, ma non riesce a trovare il coraggio di dirlo al marito perché non sa come accoglierebbe una notizia del genere, riesce solo a confidarsi con il suo amico Cliff. Per gran parte del primo atto Jimmy, tra la lettura di un giornale della domenica e un altro, si prodiga in lunghe tirate contro l’autocompiacimento della classe borghese che vive in una sorta di annullamento dei sensi, non risparmia nessuno, nemmeno frecciatine maligne contro la moglie che nel mentre stira i panni. Un momento di sincera tenerezza tra i due si apre verso la fine dell’atto quando rivelano questo curioso gioco per cui lui sarebbe un grosso orso burbero e Alison un piccolo scoiattolo, di cui hanno due pupazzi di pezza sul cassettone in camera da letto. Questo gioco segreto all’essere animali che si dimenano, si rincorrono e si uniscono poi nell’atto d’amore è una sorta di sigillo al loro matrimonio. Il ritrovato equilibrio si spezza poco dopo quando arriva la notizia che Helena, un’attrice amica di Alison, è in città e verrà a trovarli. Jimmy ne risulta profondamente disturbato, fino ad augurare ad Alison di avere un bambino e di vederlo morire così da potersi svegliare dal placido sonno che la intorpidisce.

Nel secondo atto lo status quo si spezza definitivamente: Alison, forse anche grazie alla persuasione dell’amica che si ferma per un po’ di tempo a vivere con loro, decide finalmente di lasciare Jimmy e tornare dai propri genitori. Si svelano però diversi retroscena che permettono di inquadrare meglio perché Jimmy si comporti in questo modo. Lui stesso racconta dell’esperienza dolorosa vissuta a fianco del padre morente mentre sua madre se ne infischiava; il padre di Alison, il colonnello Redfern, mentre arriva a prendere Alison si apre con la figlia e ammette che lui e la moglie sono stati forse troppo duri con Jimmy quando i due avevano deciso di sposarsi e che quindi la rabbia di Jimmy abbia effettivamente ragione d’essere. Alison è stupita di fronte alle parole del padre, ma questo non le impedisce di tornare sui suoi passi e abbandona effettivamente Jimmy alla fine del secondo atto.

A questo punto Helena e Jimmy, che sembravano provare un odio viscerale nei confronti uno dell’altra, diventano amanti e il terzo atto si apre allo stesso modo in cui si è aperto il primo solo che Helena ha preso il posto di Alison. Finché quest’ultima non rimette piede sulla scena, scompaginando questo nuovo quadro che si era venuto a creare. Le due donne hanno un confronto, pacato, Alison confesserà di avere perso il bambino, mentre Helena ammette di non essere fatta per portare avanti una vita del genere e decide di andarsene. Jimmy e Alison, entrambi grandi sconfitti della vita, decidono di tornare insieme e lenire ciascuno il proprio dolore nel loro gioco privato di orso e scoiattolo.

Se questa pièce fosse soltanto il documento di una rabbia contro l’establishment, contro l’Inghilterra conservatrice, contro alcuni ovvi dati della realtà e le sue ingiustizie, forse non avrebbe rappresentato niente di particolarmente nuovo. C’è qualcosa di più che la rende degna di essere letta ed è la rappresentazione psicologica dei suoi personaggi. Jimmy catalizza su di sé tutta l’attenzione ed è un fuoco d’artificio, ma Alison risulta in fin dei conti uno dei personaggio più complessi. Sembrerebbe intrappolata nella classica dinamica di moglie sottomessa al marito, ma in realtà lei è una vittima consenziente di Jimmy, ha consapevolmente accettato un matrimonio costruito sulle fondamenta ideologiche del marito, sapeva ciò a cui andava incontro. Alison non ha niente dell’irruenza invettiva di Jimmy, ma tacitamente si avverte che ne condivide gli ideali e in effetti ha la forza di staccarsi dalla sua famiglia e dal suo ambiente che le avrebbe garantito un’esistenza più che tranquilla per vivere con Jimmy, in una sorta di continua espiazione delle sue colpe di classe. Jimmy di contro prova sicuramente un sincero affetto per lei, ma nello stesso tempo la tratta come se fosse una sorta di trofeo strappato dalle morse del nemico. Sono entrambi delle persone deluse dalla vita che non possono nulla se non rifugiarsi nel loro universo appartato rappresentato in quella soffitta dove la domenica si leggono i giornali, si fanno battute oscene, ci si arruffa, si beve il tè e si ascoltano i concerti alla radio. C’è un passaggio in cui Helena definisce Jimmy in questa maniera: “Non c’è più posto per la gente come lui… nel mondo del sesso, della politica… di tutto. Per questo è così inconcludente. Certe volte, quando lo ascolto parlare, ho l’impressione che si senta ancora in piena rivoluzione francese. E sarebbe il suo vero posto, del resto. Non sa dove si trova, né sa dove sta andando. Non farà mai niente e non conterà mai niente.” Jimmy si vanta spesso di essere una persona molto intelligente, ma non ha la lucidità necessaria, calata nel reale, per ammettere la verità delle parole di Helena, o se l’ha capito vuole comunque fuggirne e qui sta tutta la commovente tragicità di questo personaggio che nel finale si trasferisce anche su Alison. Sfumata la possibilità di avere un figlio che le avrebbe garantito forse un appiglio più certo sul reale, anche ad Alison non resta che tornare nella tana, a interpretare la scoiattolina che si prende cura dell’orso.

IL PIATTO DEL LIBRO: i tre atti di questo testo teatrale hanno luogo tutti la domenica. Una domenica inglese di provincia, quando magari fuori piove, ci si annoia e non si ha niente di particolare da fare. Quest’atmosfera di caldo torpore mi ha fatto ritornare alla mente quegli abbondanti piatti della tradizione inglese, caldi e sostanziosi, come per esempio la Shepherd’s Pie, che viene tradizionalmente preparata con carne d’agnello ricoperta da una purea di patate. Per renderla totalmente plant-based, ho utilizzato al posto dell’agnello le lenticchie e credo si sposi benissimo con le atmosfere del testo di Osborne. Vediamo insieme come prepararla, ho preso ispirazione da quella di Minimalist Baker.

INGREDIENTI:

PER LA PUREA DI PATATE

  • 1 kg di patate
  • 3-4 cucchiai di burro vegano
  • sale, pepe, noce moscata

RIPIENO

  • 1 cipolla media
  • 2 spicchi di aglio
  • 2 cucchiai di concentrato di pomodoro
  • 250 g di lenticchie secche
  • 1 lt di brodo vegetale
  • 1 confezione di verdure miste congelate (280 g ca)
  • erbe aromatiche (io avevo solo la salvia, ma il timo o il rosmarino sarebbero perfetti)
  • sale, olio, pepe q.b.

PROCEDIMENTO:

  1. Sbucciate le patate e tagliatele a metà. Mettetele in una pentola e ricopritele con acqua. Portate a bollore, salate e coprite con un coperchio abbassando il fuoco. Lasciate andare per circa 30 minuti finché non saranno molto morbide.
  2. Intanto tagliate la cipolla sottile e fatela rosolare con un po’ di olio e i due spicchi d’aglio in una pentola capiente, aggiungere un po’ di brodo se necessario. Passati circa 5 minuti aggiungete il concentrato di pomodoro, le lenticchie, il brodo, le erbe aromatiche. Portate a bollore e abbassate poi il fuoco coprendo con un coperchio. Lasciate cuocere a fuoco basso finché le lenticchie saranno morbide, ci vorranno circa 35-40 minuti.
  3. Intanto scolate le patate quando saranno pronte e trasformatele in una purea con l’aiuto di uno schiacciapatate. Aggiungete anche il burro vegetale, sale, pepe e un pizzico di noce moscata, mescolate (se il composto risulta troppo denso potete ammorbidirlo anche con un po’ di latte vegetale).
  4. Circa 10 minuti prima della fine della cottura delle lenticchie aggiungete anche le verdure congelate. Mescolate e coprite per far mescolare insieme i sapori.
  5. Verso fine cottura togliete il coperchio e alzate il fuoco soprattutto se è necessario eliminare gli ultimi liquidi in eccesso. Per rendere più consistente il composto di lenticchie è possibile aggiungere anche 2 o 3 cucchiai di purea di patate o un cucchiaio di amido di mais. Assaggiate e regolate eventualmente di sale e pepe.
  6. Preriscaldate il forno a 250°.
  7. Trasferite le lenticchie in una casseruola da forno e ricopritele con la purea di patate, se avete un sac a poche potrebbe risultare molto comodo.
  8. Infornate e lasciate cuocere per circa 15 minuti, gli ultimi con l’opzione grill attivata per rendere più dorate e croccanti le patate.

CITAZIONE DAL LIBRO:

JIMMY (con voce bassa e rassegnata) Tutti vogliono sfuggire alla pena di essere vivi. E soprattutto vogliono sfuggire all’amore. (Va alla “toilette”) L’ho sempre saputo che qualcosa del genere sarebbe successo… un dramma di coscienza tipo la moglie malata… che avrebbe sconvolto i tuoi sentimenti delicati di fiore di serra. (Raccoglie la roba di Helena sulla “toilette” e va all’armadio guardaroba. Fuori cominciano a suonare le campane) È inutile cercare di ingannarsi sull’amore. Non puoi accettarlo come si accetta un impiego facile, senza sporcarti le mani. (Le porge la roba e apre l’armadio) Ci vogliono muscoli e coraggio. E se non riesci a sopportare l’idea… (stacca un vestito dalla stampella) di sporcare la tua bell’anima di bucato… (le si avvicina) farai meglio a rinunciare decisamente alla vita e avviarti alla santità… (le dà il vestito) perché come essere umano, sei fuori strada… Bisogna scegliere tra questo mondo e quell’altro… (Helena lo guarda un attimo ed esce rapidamente. Jimmy è scosso ed evita gli occhi di Alison. Poi va alla finestra. Ci si appoggia e batte il pugno sul telaio) Oh, quelle campane!

Come un amuleto

Quando lo provi una volta poi è difficile uscirne.

Sto parlando di Roberto Bolaño.

Chi ha letto i Detective selvaggi conosce già Auxilio Lacouture perché la sua storia viene a galla insieme a quella di tanti altri nella seconda parte del libro ed è proprio lei la protagonista di Amuleto, breve romanzo dell’autore cileno, una sorta di spin-off.

Le vicende prendono avvio da un avvenimento storico, il massacro di Tlatelolco avvenuto nell’ottobre del 1968 a Città del Messico, che fu preceduto da mesi di inquietudine politica per via delle proteste studentesche che in quell’anno scossero quasi tutto il mondo. Gli studenti di Città del Messico pensavano di catalizzare l’attenzione su di loro per via della concentrazione mediatica che in quel momento c’era sulla città che di lì a poco avrebbe ospitato i giochi olimpici. Pochi mesi prima del massacro dei manifestanti in Piazza delle tre culture, il presidente messicano di allora, Gustavo Díaz Ordaz, ordinò all’esercito di occupare il campus della UNAM violando così l’autonomia universitaria. Molti studenti vennero picchiati e arrestati indiscriminatamente anche se in quest’occasione non ci fu nessuna vittima.

In questo contesto si inserisce la storia di Auxilio Lacouture, donna dai tratti indefiniti, adulta ma bambina, uruguaiana di Montevideo ma senza vere radici, amica dei giovani poeti messicani di cui si definisce la Madre in maniera quasi ossessiva, coi quali condivide lo stesso stile di vita bohémien fatto di notti infinite tra bar e circoli letterari dove si beve e si discute, senza una fissa dimora, senza un vero impiego se non questi lavoretti nella facoltà di Lettere e Filosofia, dove tutti sembrano conoscerla e volerle bene. Quando i reparti anti sommossa entrano nell’Università nel settembre del ’68, Auxilio si trova proprio lì, o meglio nel bagno delle donne al quarto piano della facoltà di Lettere e Filosofia. È chiusa nel bagno, con la gonna abbassata e sta leggendo le poesie di Pedro Garfias, un soldato entra per un momento nel bagno, si guarda allo specchio, ma non si accorge della sua presenza. Allora lei decide di resistere, di rimanere in università, lì chiusa nel bagno, senza cibo o altro se non la compagnia di qualche poesia, per dieci giorni, la follia che la rincorre ma lei che non vuole farsi prendere, vuole resistere.

La resistenza nei bagni dell’università è come se fosse un viaggio iniziatico dal quale Auxilio ne esce con connotati diversi. Non appena si inizia la lettura si capisce subito di avere a che fare con un personaggio strambo, fragile, bizzarro coi suoi capelli alla Principe Valiant e che parla mettendosi sempre la mano davanti alla bocca per non mostrare la sua assenza di denti, dopo l’assalto all’Università la sua stranezza assume quasi una statura mitologica, Auxilio una donna senza tempo e senza età che sorvola sulla storia, come nella grandiosa immagine profetica che chiude il libro in cui una massa di giovani sembra marciare insieme verso l’abisso intonando un canto che parla di guerra e delle imprese eroiche di un’intera generazioni di giovani latinoamericani sacrificati, un canto che è come un amuleto.

La scrittura lineare di Bolaño ha i tratti della poesia, il romanzo in sé il carattere di un sogno, in cui diversi scenari si susseguono in maniera caotica come succede appunto nei sogni. Più che un ricordo nitido resta una sensazione, ed è quella giusta.

IL PIATTO DEL LIBRO: Avete presente i fagioli neri che avevo utilizzato per fare quelle buonissime enchiladas? Ecco, ne erano avanzati un po’ e li ho riutilizzati per preparare questa volta delle quesadillas, un altro piatto tipico del Messico. Sono fatte con le piadine messicane, le tortillas di mais, e con ripieni di vario tipo in cui però non può mai mancare il queso, il formaggio. Io ho usato un queso un po’ particolare chiaramente, a base di lenticchie, che potete vedere nella foto che mi metto sotto. Trovate questo tipo di formaggi nei supermercati bio tipo NaturaSì. Il ripieno invece è a base di guacamole, funghi, fagioli neri e mais.

INGREDIENTI PER 2/3 PERSONE:

  • tortillas di mais
  • 1 avocado maturo
  • succo di mezzo limone (o lime)
  • pepe di Cayenna
  • fagioli neri, 200 g
  • 1 scatoletta di mais
  • funghi champignon, 1 confezione
  • 1 spicchio d’aglio
  • formaggio veg da grattuggiare

Se usate i fagioli secchi, dovrete metterli a bagno dalla notte precedente e cuocerli successivamente in pentola a pressione per 25 minuti circa a partire dal fischio. Vi ricordo che se usate un’alga kombu durante la cottura i fagioli risulteranno più morbidi e facilmente digeribili.

Nel frattempo preparate la salsa guacamole tagliando un avocado maturo in tanti piccoli pezzi e schiacciandolo poi con una forchetta. Aggiungete il succo di mezzo limone, mezzo cucchiaino di pepe di Cayenna che darà carattere alla salsa (e ha tra l’altro una quantità di proprietà benefiche per la salute), sale e pepe q.b. e mescolate.

In una padella rosolate uno spicchio d’aglio con un po’ di olio evo e cuocete i funghi affettati. Fate perdere tutta l’eventuale acqua in eccesso, salate e pepate. Aggiungete poi anche i fagioli e il mais e fate saltare per qualche minuto. Grattugiate anche il formaggio veg e tenete da parte.

A quel punto, fate scaldare a secco in un’ampia padella le tortillas da entrambi i lati. Adagiate il ripieno su una metà, spalmate sopra la salsa e infine il formaggio grattugiato, chiudete la tortilla e fate cuocere nuovamente da entrambi i lati a fuoco vivace giusto il tempo per rendere dorata la piadina. Togliete dal fuoco e tagliatela a metà.

CITAZIONE DAL LIBRO:

Se non sono diventata pazza è perché non ho mai perso il senso dell’umorismo. Ridevo delle mie gonne, dei miei pantaloni a tubo, delle mie calze a righe, dei miei calzini bianchi, del mio taglio alla principe Valiant coi capelli ogni giorno meno biondi e più grigi, dei miei occhi che scrutavano la notte di Città del Messico, delle mie orecchie rosee che ascoltavano le storie dell’universo, chi saliva e chi scendeva, chi era bellamente ignorato, chi veniva messo in coda, chi leccava i piedi a chi, le adulazioni, i falsi meriti, i letti tremanti che si smontavano e poi si rimontavano sotto i cieli sconvolti di Città del Messico, quel cielo che conoscevo così bene, quel cielo convulso e irraggiungibile come una pentola atzeca sotto al quale io mi muovevo felice e contenta, con tutti i poeti del Messico e con Arturito Belano che aveva diciassette, diciotto anni, e cresceva sotto il mio sguardo. Tutti crescevano protetti dal mio sguardo! Cioè, tutti crescevano nelle intemperie messicane, nelle intemperie latino-americane, che sono le intemperie più grandi perché sono le più divise e le più scisse. E il mio sguardo luccicava come la luna in quelle intemperie e si posava sulle statue, sulle figure intimorite, sui crocchi di ombre, sui contorni che non avevano nulla eccetto l’utopia della parola, una parola, d’altra parte, abbastanza miserabile. Miserabile? Sì, ammettiamolo, abbastanza miserabile. E io stavo lì con loro perché anch’io non avevo nulla, eccetto la mia memoria.

Cena tra amici con Bolaño

Leggi I detective selvaggi e se sei come me uno che lavora a tempo pieno (anzi pienissimo), alla lettura non è che puoi dedicare più di un tot di ore al giorno. I detective selvaggi sono 688 pagine, quindi leggerlo quando si ha un po’ di tempo significa portarsi appresso il malloppo per un bel po’ di giorni, dentro e fuori le borse, dentro e fuori i mezzi pubblici, sulle panchine sporche nella pausa pranzo, alla luce tenue di una lampada quando rubi un po’ di ore al sonno, e alla fine sembra che il momento della giornata in cui ti riconnetti con Ulises Lima, Arturo Belano e tutti gli altri realvisceralisti sia l’unico che davvero aspettavi. Poi lo finisci e ti chiedi con un po’ di stupore: ma cosa ho appena letto?

Il mio maestro di storia del teatro russo diceva sempre che bisognava leggere Anna Karenina a diverse età della propria vita perché è un romanzo complesso che particolarmente si presta a regalarti diverse e nuove visioni a seconda del tuo grado di maturazione e I detective selvaggi mi ha restituito una sensazione simile, nel senso che prendendolo in mano una decina di anni fa ci avrei letto sicuramente delle cose che adesso ho letto diversamente. Probabilmente capita per quasi tutti i libri, ma alcuni si prestano più di altri.

I detective selvaggi è il libro dei vent’anni, della vita bohemiene e di quello che succede dopo, è l’epopea di un gruppo di poeti messicani guidati dai due che ho citato sopra che stanno tentando di imporre una nuova corrente d’avanguardia, il realvisceralismo, a Città del Messico. Si incontrano, si portano sempre appresso libri, fanno sesso, bevono molto, vanno ai convegni di poesia, parlano fino a notte fonda e girano per le strade di questo DF, una città che nelle sue descrizioni unisce l’etereo e il brutale, la fogna e l’altitudine. I detective selvaggi è il racconto della sconfitta di una generazione di ragazzi che pensava di cambiare il mondo mettendo insieme le parole in maniera diversa e invece si ritrova semplicemente impelagata nei soliti problemi del diventare adulti e sopraffatta dalla politica, un mosaico di umanità. Un testo torrenziale, sfuggente, che si manifesta con la potenza di un incubo o di un sogno, come gran parte della letteratura sudamericana che mi è capitato di leggere finora.

Il romanzo è articolato in tre sezioni principali: nella prima ambientata negli ultimi mesi del 1975 seguiamo le vicende dei realvisceralisti narrate in prima persona da Juan García Madero, un ragazzo iscritto a giurisprudenza che viene però facilmente distratto dai suoi doveri nel momento in cui entra a far parte della cerchia di questi poeti; la seconda, la più sostanziosa, prende un arco temporale molto ampio che dal ’75 si estende fino alla seconda meta degli anni ’90, qui le esperienze vissute da Lima e Belano, protagonisti prismatici del romanzo, si moltiplicano nel racconto di tanti altri personaggi che in qualche modo sono venuti a contatto con loro portando alla luce nuovi episodi delle loro esperienze erranti; la terza e ultima riprende da dove era terminata la prima, l’ultimo giorno del 1975, per portarci nei deserti del Sonora, dove Lima, Belano e García Madero sono fuggiti con Lupe per scappare da una banda di criminali e soprattutto per recuperare le tracce di Cesárea Tinajero, quella che sembra essere la madre della poesia realvisceralista.

Leggendo si ha la sensazione che un sottile filo di follia tenga insieme una pagina con l’altra, si ha l’idea di avere tra le mani un romanzo in cui lentamente tutto va in malora, Lima e Belano ne vengono fuori come due personaggi straordinari e straordinariamente inconcludenti, vittime delle loro visioni profetiche. Ma nonostante questo effetto di disintegrazione inarrestabile, il gioco che sottende il testo e il piacere dell’audacia formale di Bolaño rendono la lettura estremamente piacevole in ogni momento.

Il tessuto intertestuale è molto ricco, le cose che più saltano all’occhio sono i riferimenti all’Ulisse di Joyce e all’Odissea di Omero nel nome di Ulises Lima e nel peregrinare infinito dei due protagonisti. I detective selvaggi è in effetti il libro che ti fa perdere, che a un certo punto ti spinge fino a dei villaggi africani devastati dalla guerra dove il punto è spingersi oltre il significato di qualsiasi esperienza perché forse il problema è che quel significato non c’è. È il libro dei deserti del Sonora dove vibra una spiritualità tutta diversa, dove la vita diventa più metafisica ed è il libro delle immense notti del DF, dove non sono mai stata, e ora non vedo l’ora di andarci.

Se mi chiedessero perché leggerlo, risponderei: perché alla fine ti apre una finestra.

IL PIATTO DEL LIBRO: per questo libro, oltre che volare in Messico con i sapori, volevo fare qualcosa che si prestasse a essere consumato in una cena tra amici perché è qualcosa che ben si adatta all’atmosfera del romanzo. Ho pensato a un piatto di enchiladas preparate con un ripieno di fagioli neri e una gustosa salsina di anacardi in sostituzione del formaggio fuso.

INGREDIENTI per 2-3 persone:

  • 150 g di fagioli neri (io ho usato quelli secchi, messi in ammollo la sera prima e poi cotti con la pentola a pressione per 30 minuti)
  • 100 g di riso rosso cotto
  • 2 patate dolci medio-piccole, tagliate in piccoli pezzi
  • 1 peperone, tagliato a cubetti
  • 1 cipolla piccola, tagliata sottile
  • 1 spicchio d’aglio, tritato
  • 7 tortillas (io le ho usate con farina integrale)
  • salsa chilli
  • 2 cucchiai olio evo
  • pepe fresco macinato
  • erba cipollina / prezzemolo fresco tritato
  • 1 avocado tagliato a pezzetti per il topping
  • formaggio vegetale agli anacardi (per quello ricetta a parte)

MEAL PREP:

Armatevi di un po’ di pazienza perché è un piatto molto semplice, ma che richiede un po’ di tempo, soprattutto se non avete preparato nulla in anticipo. Quindi per ottimizzare i tempi, potete iniziare a cuocere i fagioli e il riso anche il giorno prima, oppure usare i legumi in scatola. Stessa cosa anche per il “formaggio” di anacardi. In questo modo non vi resterà che tagliare e cuocere le verdure e poi assemblare tutti gli ingredienti per creare le enchiladas. Se usate la pentola a pressione per cuocere i fagioli, 30 minuti dal fischio e sono pronti, potete aggiungere l’alga kombu in cottura che aiuta nel rendere i legumi più facilmente digeribili (soprattutto per chi non è tanto abituato a mangiarli). Per quanto riguarda la salsa, potete trovare tante ricette per farla in casa, che è sicuramente la scelta migliore, ma non avendo tanto tempo io l’ho comprata già pronta da Kathay a Milano (potete vedere nelle foto sotto quella da me usata).

  1. Mettete le patate dolci tagliate a pezzetti in una padella grande, a fuoco medio, con due cucchiai di olio. Condite con una generosa manciata di sale e pepe.
  2. Cuocete per circa 5 minuti e aggiungete l’aglio tritato.
  3. Aggiungete il peperone tagliato a strisce sottili, la cipolla, i fagioli e mescolate.
  4. Cuocete ancora per qualche minuto, magari con coperchio, finché le patate saranno belle tenere.
  5. Aggiungete anche il riso e un paio di cucchiai di salsa, mescolate per amalgamare bene il tutto e togliete dal fuoco.
  6. Preriscaldate il forno a 180°.
  7. Ricoprite con uno strato di salsa il fondo di una pirofila.
  8. Mettete un paio di cucchiaiate di ripieno sul bordo di una tortilla e aggiungete anche un po’ di formaggio vegetale.
  9. Richiudete la tortilla e riponetela con i bordi verso il basso all’interno della pirofila. Ripetete l’operazione fino a riempimento.
  10. Ricoprite le tortillas con la salsa rimanente e aggiungete anche il formaggio vegetale che rimane.
  11. Infornare e cuocere per 20 minuti a 180°.
  12. Per finire, aggiungere l’erba cipollina o il prezzemolo o il coriandolo a seconda delle vostre preferenze e l’avocado a pezzi.

Nota: per preparare il formaggio vegetale agli anacardi, ho preso 125 g di anacardi al naturale e li ho ricoperti per almeno 10 minuti con acqua bollente (questo è il metodo veloce, altrimenti dovresti lasciarli in ammollo per una notte intera), li ho scolati e li ho messi in un frullatore insieme al succo di mezzo limone, 60 g di acqua, sale, paprika affumicata ed erba cipollina fino ad ottenere una crema omogenea.

CITAZIONE DAL LIBRO:

Belano, gli dissi, il nocciolo della questione è sapere se il male (o il delitto o il crimine o come vuole chiamarlo) è casuale o causale. Se è causale possiamo lottare contro di lui, è difficile da sconfiggere ma c’è una possibilità, più o meno come fra due pugili dello stesso peso. Se è casuale, al contrario, siamo fregati. Che Dio, se esiste, abbia pietà di noi. È a questo che si riduce tutto.

In un certo sono un burger vegano

Quando mi è venuta l’idea di unire cucina vegana e letteratura, stavo leggendo La fine della strada di John Barth e quindi non mi viene in mente un libro migliore da cui partire.

La fine della strada (pubblicato originariamente nel 1958) è uno dei suoi primissimi romanzi, improntato sul tipico realismo americano ma con un twist totalmente barthiano che già ci fa intuire quale sarà il suo stile di scrittura futuro, più barocco e sperimentale: non per nulla viene considerato uno dei padri della letteratura post-moderna, David Foster Wallace stesso scrisse un testo, Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso, costruito su alcuni personaggi di Lost in the Funhouse, che è una delle opere più famose di Barth.

Il romanzo parla di un triangolo amoroso davvero sui generis in cui un modesto docente delle superiori, Jacob Horner, in cura presso un dottore specializzato nel trattamento di paraplegici (anche se la paraplegia del protagonista non ha niente a che vedere con il fisico), appena trasferitosi in una nuova cittadina, Wicomico, dove ha preso incarico proprio su consiglio del suo Dottore, si trova a fare amicizia con una coppia del posto, i Morgan, sviluppando delle dinamiche che porteranno alla rovina di tutti e tre i personaggi.

L’incipit è già di per sé una dichiarazione di poetica: “In un certo senso io sono Jacob Horner“. Tutto il testo è infatti costruito intorno al tema della scelta e a come le scelte o non-scelte che noi facciamo contribuiscano a costruire la nostra identità, sebbene questo si riveli molto spesso un gioco dettato dal caso (si vedano le curiose terapie prescritte dal Dottore) o dalla necessità e quindi non davvero una scelta per definizione; mentre in alcuni casi aderire troppo a delle (auto)imposizioni dettate dalla razionalità porti comunque a un impasse in cui anche la ragione stessa mostra le sue mancanze. In effetti, tutto il vero, tragico realismo del romanzo è concentrato negli ultimissimi capitoli dove si sfogano tutte le tensioni e i giochi psicologici sviluppatesi nei capitoli precedenti, che hanno invece un tono decisamente più scanzonato e divertente (su alcune pagine si ride proprio di gusto). Inoltre, sebbene il romanzo si preoccupi di mantenere vivo un senso di verosimiglianza, è denso di riferimenti metanarrativi: riflessioni sulla scrittura e su come la scrittura manipoli e in un certo senso tradisca la realtà.

IL PIATTO DEL LIBRO: Parlando di America anni ’50 in una sperduta cittadina di provincia, parlando di sperimentalismo e, perché no, parlando di questioni legate all’identità, a questo libro assocerei senz’altro un bel burger vegano. Io l’ho fatto con la barbabietola e le lenticchie, è incredibile perché la consistenza del composto che si ottiene è simile al macinato della carne e anche il colore e l’aroma dato dalle spezie utilizzate aiuta ad alimentare quest’illusione.

INGREDIENTI per 3 burger:

  • 1 barbabietola rossa grande, cruda
  • 2-3 cucchiai di olio evo
  • 1 cucchiaino di paprika affumicata
  • 1/2 cucchiaino di cumino macinato
  • 25 g di noci sgusciate
  • 85 g lenticchie cotte (io ho usato quelle in scatola per abbreviare i tempi)
  • prezzemolo tritato con aglio q.b.
  • circa mezza cipolla non molto grande tagliata finemente
  • 30 g farina di mais (o pangrattato)
  • 1 cucchiaio di miso
  • 1/2 cucchiaio di concentrato di pomodoro
  • 1 cucchiaino di amido di mais
  • sale e pepe q.b.

N.B. Come strumenti vi serviranno un mixer/robot da cucina e una grattuggia a maglie larghe. Preparate in anticipo la quantità giusta di ingredienti che vi servono e disponeteli in ordine insieme a tutti gli attrezzi di cucina, renderà molto più armonioso l’intero processo.

PROCEDIMENTO:

  1. Tritare le noci finemente e metterle da parte.
  2. Risciacquare le lenticchie sotto l’acqua corrente per eliminare il sale in eccesso.
  3. Pulire la barbabietola e grattuggiarla.
  4. Farla rosolare in padella per due minuti con un filo di olio e sale; aggiungere poi anche il prezzemolo con aglio, una spruzzata di cumino e la paprika affumicata, fare cuocere ancora per 5 minuti finché la maggior parte del liquido della barbabietola non viene assorbito.
  5. In una bowl, mescolare le barbabietole cotte con la farina di mais, le lenticchie, le noci tritate, il cucchiaio di pasta miso, il concentrato di pomodoro e la cipolla.
  6. Aggiungere infine 1 cucchiaino di amido di mais e una generosa spruzzata di pepe nero, mischiare bene il tutto.
  7. Prendere circa 1/3 del composto e frullarlo in un mixer insieme a un filo d’olio e un cucchiaio di acqua per ottenere una consistenza simile a una purea e unirlo poi nuovamente con il resto del miscuglio più “grezzo” e mescolare.
  8. Formare dei burger se ce l’avete anche con l’aiuto di un coppapasta tondo, con queste quantità dovrebbero venire fuori 3 burger dimensione large.
  9. Passateli in padella con olio a fuoco medio-alto 2 minuti per lato e ripassateli infine in forno a 180° per 20 minuti per renderli ancora più compatti.
  10. Infine create il vostro panino con gli ingredienti che preferite. Io ci ho messo semplicemente un po’ di mayo veg, dei pomodori tagliati a fettine e delle foglie di insalata.

CITAZIONE DAL LIBRO:

[…] Questa è l’essenza che gli avete assegnato, almeno temporaneamente, per i vostri scopi, come un romanziere fa di un uomo Il Bello E Giovane Poeta o Il Vecchio Marito Geloso; e anche se sapete bene che nessun reale essere umano è mai stato soltanto un Servizievole Addetto A Un Distributore Di Benzina o un Bello E Giovane Poeta, siete nondimeno preparati a ignorare le affascinanti complessità del vostro uomo – dovete ignorarle, se volete andare avanti con la storia, o far sì che le cose avvengano secondo il piano prestabilito. Ma di ciò si parlerà più avanti, perché è collegato alla mitoterapia. Per ora basti dire che per gran parte del nostro tempo, se non sempre, siamo tutti dispensatori di ruoli, ed è saggio chi si rende conto che il suo dispensatore ruoli è, nel migliore dei casi, un’arbitraria deformazione della personalità degli attori; ma è anche più saggio chi vede, oltre a ciò, che questo arbitrio è probabilmente inevitabile, e sembra a ogni modo necessario se uno vuole raggiungere il fine che desidera.