Come un amuleto

Quando lo provi una volta poi è difficile uscirne.

Sto parlando di Roberto Bolaño.

Chi ha letto i Detective selvaggi conosce già Auxilio Lacouture perché la sua storia viene a galla insieme a quella di tanti altri nella seconda parte del libro ed è proprio lei la protagonista di Amuleto, breve romanzo dell’autore cileno, una sorta di spin-off.

Le vicende prendono avvio da un avvenimento storico, il massacro di Tlatelolco avvenuto nell’ottobre del 1968 a Città del Messico, che fu preceduto da mesi di inquietudine politica per via delle proteste studentesche che in quell’anno scossero quasi tutto il mondo. Gli studenti di Città del Messico pensavano di catalizzare l’attenzione su di loro per via della concentrazione mediatica che in quel momento c’era sulla città che di lì a poco avrebbe ospitato i giochi olimpici. Pochi mesi prima del massacro dei manifestanti in Piazza delle tre culture, il presidente messicano di allora, Gustavo Díaz Ordaz, ordinò all’esercito di occupare il campus della UNAM violando così l’autonomia universitaria. Molti studenti vennero picchiati e arrestati indiscriminatamente anche se in quest’occasione non ci fu nessuna vittima.

In questo contesto si inserisce la storia di Auxilio Lacouture, donna dai tratti indefiniti, adulta ma bambina, uruguaiana di Montevideo ma senza vere radici, amica dei giovani poeti messicani di cui si definisce la Madre in maniera quasi ossessiva, coi quali condivide lo stesso stile di vita bohémien fatto di notti infinite tra bar e circoli letterari dove si beve e si discute, senza una fissa dimora, senza un vero impiego se non questi lavoretti nella facoltà di Lettere e Filosofia, dove tutti sembrano conoscerla e volerle bene. Quando i reparti anti sommossa entrano nell’Università nel settembre del ’68, Auxilio si trova proprio lì, o meglio nel bagno delle donne al quarto piano della facoltà di Lettere e Filosofia. È chiusa nel bagno, con la gonna abbassata e sta leggendo le poesie di Pedro Garfias, un soldato entra per un momento nel bagno, si guarda allo specchio, ma non si accorge della sua presenza. Allora lei decide di resistere, di rimanere in università, lì chiusa nel bagno, senza cibo o altro se non la compagnia di qualche poesia, per dieci giorni, la follia che la rincorre ma lei che non vuole farsi prendere, vuole resistere.

La resistenza nei bagni dell’università è come se fosse un viaggio iniziatico dal quale Auxilio ne esce con connotati diversi. Non appena si inizia la lettura si capisce subito di avere a che fare con un personaggio strambo, fragile, bizzarro coi suoi capelli alla Principe Valiant e che parla mettendosi sempre la mano davanti alla bocca per non mostrare la sua assenza di denti, dopo l’assalto all’Università la sua stranezza assume quasi una statura mitologica, Auxilio una donna senza tempo e senza età che sorvola sulla storia, come nella grandiosa immagine profetica che chiude il libro in cui una massa di giovani sembra marciare insieme verso l’abisso intonando un canto che parla di guerra e delle imprese eroiche di un’intera generazioni di giovani latinoamericani sacrificati, un canto che è come un amuleto.

La scrittura lineare di Bolaño ha i tratti della poesia, il romanzo in sé il carattere di un sogno, in cui diversi scenari si susseguono in maniera caotica come succede appunto nei sogni. Più che un ricordo nitido resta una sensazione, ed è quella giusta.

IL PIATTO DEL LIBRO: Avete presente i fagioli neri che avevo utilizzato per fare quelle buonissime enchiladas? Ecco, ne erano avanzati un po’ e li ho riutilizzati per preparare questa volta delle quesadillas, un altro piatto tipico del Messico. Sono fatte con le piadine messicane, le tortillas di mais, e con ripieni di vario tipo in cui però non può mai mancare il queso, il formaggio. Io ho usato un queso un po’ particolare chiaramente, a base di lenticchie, che potete vedere nella foto che mi metto sotto. Trovate questo tipo di formaggi nei supermercati bio tipo NaturaSì. Il ripieno invece è a base di guacamole, funghi, fagioli neri e mais.

INGREDIENTI PER 2/3 PERSONE:

  • tortillas di mais
  • 1 avocado maturo
  • succo di mezzo limone (o lime)
  • pepe di Cayenna
  • fagioli neri, 200 g
  • 1 scatoletta di mais
  • funghi champignon, 1 confezione
  • 1 spicchio d’aglio
  • formaggio veg da grattuggiare

Se usate i fagioli secchi, dovrete metterli a bagno dalla notte precedente e cuocerli successivamente in pentola a pressione per 25 minuti circa a partire dal fischio. Vi ricordo che se usate un’alga kombu durante la cottura i fagioli risulteranno più morbidi e facilmente digeribili.

Nel frattempo preparate la salsa guacamole tagliando un avocado maturo in tanti piccoli pezzi e schiacciandolo poi con una forchetta. Aggiungete il succo di mezzo limone, mezzo cucchiaino di pepe di Cayenna che darà carattere alla salsa (e ha tra l’altro una quantità di proprietà benefiche per la salute), sale e pepe q.b. e mescolate.

In una padella rosolate uno spicchio d’aglio con un po’ di olio evo e cuocete i funghi affettati. Fate perdere tutta l’eventuale acqua in eccesso, salate e pepate. Aggiungete poi anche i fagioli e il mais e fate saltare per qualche minuto. Grattugiate anche il formaggio veg e tenete da parte.

A quel punto, fate scaldare a secco in un’ampia padella le tortillas da entrambi i lati. Adagiate il ripieno su una metà, spalmate sopra la salsa e infine il formaggio grattugiato, chiudete la tortilla e fate cuocere nuovamente da entrambi i lati a fuoco vivace giusto il tempo per rendere dorata la piadina. Togliete dal fuoco e tagliatela a metà.

CITAZIONE DAL LIBRO:

Se non sono diventata pazza è perché non ho mai perso il senso dell’umorismo. Ridevo delle mie gonne, dei miei pantaloni a tubo, delle mie calze a righe, dei miei calzini bianchi, del mio taglio alla principe Valiant coi capelli ogni giorno meno biondi e più grigi, dei miei occhi che scrutavano la notte di Città del Messico, delle mie orecchie rosee che ascoltavano le storie dell’universo, chi saliva e chi scendeva, chi era bellamente ignorato, chi veniva messo in coda, chi leccava i piedi a chi, le adulazioni, i falsi meriti, i letti tremanti che si smontavano e poi si rimontavano sotto i cieli sconvolti di Città del Messico, quel cielo che conoscevo così bene, quel cielo convulso e irraggiungibile come una pentola atzeca sotto al quale io mi muovevo felice e contenta, con tutti i poeti del Messico e con Arturito Belano che aveva diciassette, diciotto anni, e cresceva sotto il mio sguardo. Tutti crescevano protetti dal mio sguardo! Cioè, tutti crescevano nelle intemperie messicane, nelle intemperie latino-americane, che sono le intemperie più grandi perché sono le più divise e le più scisse. E il mio sguardo luccicava come la luna in quelle intemperie e si posava sulle statue, sulle figure intimorite, sui crocchi di ombre, sui contorni che non avevano nulla eccetto l’utopia della parola, una parola, d’altra parte, abbastanza miserabile. Miserabile? Sì, ammettiamolo, abbastanza miserabile. E io stavo lì con loro perché anch’io non avevo nulla, eccetto la mia memoria.

Cena tra amici con Bolaño

Leggi I detective selvaggi e se sei come me uno che lavora a tempo pieno (anzi pienissimo), alla lettura non è che puoi dedicare più di un tot di ore al giorno. I detective selvaggi sono 688 pagine, quindi leggerlo quando si ha un po’ di tempo significa portarsi appresso il malloppo per un bel po’ di giorni, dentro e fuori le borse, dentro e fuori i mezzi pubblici, sulle panchine sporche nella pausa pranzo, alla luce tenue di una lampada quando rubi un po’ di ore al sonno, e alla fine sembra che il momento della giornata in cui ti riconnetti con Ulises Lima, Arturo Belano e tutti gli altri realvisceralisti sia l’unico che davvero aspettavi. Poi lo finisci e ti chiedi con un po’ di stupore: ma cosa ho appena letto?

Il mio maestro di storia del teatro russo diceva sempre che bisognava leggere Anna Karenina a diverse età della propria vita perché è un romanzo complesso che particolarmente si presta a regalarti diverse e nuove visioni a seconda del tuo grado di maturazione e I detective selvaggi mi ha restituito una sensazione simile, nel senso che prendendolo in mano una decina di anni fa ci avrei letto sicuramente delle cose che adesso ho letto diversamente. Probabilmente capita per quasi tutti i libri, ma alcuni si prestano più di altri.

I detective selvaggi è il libro dei vent’anni, della vita bohemiene e di quello che succede dopo, è l’epopea di un gruppo di poeti messicani guidati dai due che ho citato sopra che stanno tentando di imporre una nuova corrente d’avanguardia, il realvisceralismo, a Città del Messico. Si incontrano, si portano sempre appresso libri, fanno sesso, bevono molto, vanno ai convegni di poesia, parlano fino a notte fonda e girano per le strade di questo DF, una città che nelle sue descrizioni unisce l’etereo e il brutale, la fogna e l’altitudine. I detective selvaggi è il racconto della sconfitta di una generazione di ragazzi che pensava di cambiare il mondo mettendo insieme le parole in maniera diversa e invece si ritrova semplicemente impelagata nei soliti problemi del diventare adulti e sopraffatta dalla politica, un mosaico di umanità. Un testo torrenziale, sfuggente, che si manifesta con la potenza di un incubo o di un sogno, come gran parte della letteratura sudamericana che mi è capitato di leggere finora.

Il romanzo è articolato in tre sezioni principali: nella prima ambientata negli ultimi mesi del 1975 seguiamo le vicende dei realvisceralisti narrate in prima persona da Juan García Madero, un ragazzo iscritto a giurisprudenza che viene però facilmente distratto dai suoi doveri nel momento in cui entra a far parte della cerchia di questi poeti; la seconda, la più sostanziosa, prende un arco temporale molto ampio che dal ’75 si estende fino alla seconda meta degli anni ’90, qui le esperienze vissute da Lima e Belano, protagonisti prismatici del romanzo, si moltiplicano nel racconto di tanti altri personaggi che in qualche modo sono venuti a contatto con loro portando alla luce nuovi episodi delle loro esperienze erranti; la terza e ultima riprende da dove era terminata la prima, l’ultimo giorno del 1975, per portarci nei deserti del Sonora, dove Lima, Belano e García Madero sono fuggiti con Lupe per scappare da una banda di criminali e soprattutto per recuperare le tracce di Cesárea Tinajero, quella che sembra essere la madre della poesia realvisceralista.

Leggendo si ha la sensazione che un sottile filo di follia tenga insieme una pagina con l’altra, si ha l’idea di avere tra le mani un romanzo in cui lentamente tutto va in malora, Lima e Belano ne vengono fuori come due personaggi straordinari e straordinariamente inconcludenti, vittime delle loro visioni profetiche. Ma nonostante questo effetto di disintegrazione inarrestabile, il gioco che sottende il testo e il piacere dell’audacia formale di Bolaño rendono la lettura estremamente piacevole in ogni momento.

Il tessuto intertestuale è molto ricco, le cose che più saltano all’occhio sono i riferimenti all’Ulisse di Joyce e all’Odissea di Omero nel nome di Ulises Lima e nel peregrinare infinito dei due protagonisti. I detective selvaggi è in effetti il libro che ti fa perdere, che a un certo punto ti spinge fino a dei villaggi africani devastati dalla guerra dove il punto è spingersi oltre il significato di qualsiasi esperienza perché forse il problema è che quel significato non c’è. È il libro dei deserti del Sonora dove vibra una spiritualità tutta diversa, dove la vita diventa più metafisica ed è il libro delle immense notti del DF, dove non sono mai stata, e ora non vedo l’ora di andarci.

Se mi chiedessero perché leggerlo, risponderei: perché alla fine ti apre una finestra.

IL PIATTO DEL LIBRO: per questo libro, oltre che volare in Messico con i sapori, volevo fare qualcosa che si prestasse a essere consumato in una cena tra amici perché è qualcosa che ben si adatta all’atmosfera del romanzo. Ho pensato a un piatto di enchiladas preparate con un ripieno di fagioli neri e una gustosa salsina di anacardi in sostituzione del formaggio fuso.

INGREDIENTI per 2-3 persone:

  • 150 g di fagioli neri (io ho usato quelli secchi, messi in ammollo la sera prima e poi cotti con la pentola a pressione per 30 minuti)
  • 100 g di riso rosso cotto
  • 2 patate dolci medio-piccole, tagliate in piccoli pezzi
  • 1 peperone, tagliato a cubetti
  • 1 cipolla piccola, tagliata sottile
  • 1 spicchio d’aglio, tritato
  • 7 tortillas (io le ho usate con farina integrale)
  • salsa chilli
  • 2 cucchiai olio evo
  • pepe fresco macinato
  • erba cipollina / prezzemolo fresco tritato
  • 1 avocado tagliato a pezzetti per il topping
  • formaggio vegetale agli anacardi (per quello ricetta a parte)

MEAL PREP:

Armatevi di un po’ di pazienza perché è un piatto molto semplice, ma che richiede un po’ di tempo, soprattutto se non avete preparato nulla in anticipo. Quindi per ottimizzare i tempi, potete iniziare a cuocere i fagioli e il riso anche il giorno prima, oppure usare i legumi in scatola. Stessa cosa anche per il “formaggio” di anacardi. In questo modo non vi resterà che tagliare e cuocere le verdure e poi assemblare tutti gli ingredienti per creare le enchiladas. Se usate la pentola a pressione per cuocere i fagioli, 30 minuti dal fischio e sono pronti, potete aggiungere l’alga kombu in cottura che aiuta nel rendere i legumi più facilmente digeribili (soprattutto per chi non è tanto abituato a mangiarli). Per quanto riguarda la salsa, potete trovare tante ricette per farla in casa, che è sicuramente la scelta migliore, ma non avendo tanto tempo io l’ho comprata già pronta da Kathay a Milano (potete vedere nelle foto sotto quella da me usata).

  1. Mettete le patate dolci tagliate a pezzetti in una padella grande, a fuoco medio, con due cucchiai di olio. Condite con una generosa manciata di sale e pepe.
  2. Cuocete per circa 5 minuti e aggiungete l’aglio tritato.
  3. Aggiungete il peperone tagliato a strisce sottili, la cipolla, i fagioli e mescolate.
  4. Cuocete ancora per qualche minuto, magari con coperchio, finché le patate saranno belle tenere.
  5. Aggiungete anche il riso e un paio di cucchiai di salsa, mescolate per amalgamare bene il tutto e togliete dal fuoco.
  6. Preriscaldate il forno a 180°.
  7. Ricoprite con uno strato di salsa il fondo di una pirofila.
  8. Mettete un paio di cucchiaiate di ripieno sul bordo di una tortilla e aggiungete anche un po’ di formaggio vegetale.
  9. Richiudete la tortilla e riponetela con i bordi verso il basso all’interno della pirofila. Ripetete l’operazione fino a riempimento.
  10. Ricoprite le tortillas con la salsa rimanente e aggiungete anche il formaggio vegetale che rimane.
  11. Infornare e cuocere per 20 minuti a 180°.
  12. Per finire, aggiungere l’erba cipollina o il prezzemolo o il coriandolo a seconda delle vostre preferenze e l’avocado a pezzi.

Nota: per preparare il formaggio vegetale agli anacardi, ho preso 125 g di anacardi al naturale e li ho ricoperti per almeno 10 minuti con acqua bollente (questo è il metodo veloce, altrimenti dovresti lasciarli in ammollo per una notte intera), li ho scolati e li ho messi in un frullatore insieme al succo di mezzo limone, 60 g di acqua, sale, paprika affumicata ed erba cipollina fino ad ottenere una crema omogenea.

CITAZIONE DAL LIBRO:

Belano, gli dissi, il nocciolo della questione è sapere se il male (o il delitto o il crimine o come vuole chiamarlo) è casuale o causale. Se è causale possiamo lottare contro di lui, è difficile da sconfiggere ma c’è una possibilità, più o meno come fra due pugili dello stesso peso. Se è casuale, al contrario, siamo fregati. Che Dio, se esiste, abbia pietà di noi. È a questo che si riduce tutto.