Ho finito di leggere La filiale di Sergej Dovlatov, edito in Italia da Sellerio con la sempre impeccabile cura di Laura Salmon. Siamo in America, New York, nel 1981. Dalmatov, dietro il cui pseudonimo non è difficile riconoscere l’autore in carne e ossa Dovlatov, è un giornalista expat russo che lavora per un’emittente radio la cui frequenza in USSR è oscurata e diffonde quindi notizie per lo più dirette ai numerosi connazionali espatriati in America. Le sue vere ambizioni sono letterarie e questo lavoro, sostiene, serve per mantenere la famiglia e tirare avanti. Una mattina il suo capo lo avverte che hanno organizzato un convegno a Los Angeles dal tema la nuova Russia e il suo futuro, in cui si riunirà il meglio dell’intellegencija sovietica sparsa per il mondo e il cui culmine sarà l’elezione di un presidente in esilio e delle altre inerenti importanti cariche politiche in modo che si possa portare avanti il retaggio della cultura politica, civile e spirituale russa anche in un futuro post-regime. Dalmatov dovrà essere l’inviato de La terza ondata, il nome dell’emittente radio dove conduce il programma Persone e avvenimenti, e sebbene un po’ controvoglia non può far altro che partire direzione Los Angeles.
Il direttore proseguì:
– Un’altra domanda. Dimmi, che ne pensi della Russia del futuro? Ma con franchezza.
– Con franchezza? Niente.
– Sei un tipo singolare tu. Non vuoi andare in California. Non pensi al futuro della Russia.
– Sto ancora cercando di capire il passato… E poi, che c’è da pensare?! Chi vivrà vedrà.
– Chi ci arriverà vivo… – assentì il direttore.
La cronaca di ciò che avviene durante le varie conferenze ricalca lo stile tipico di Dovlatov, intriso di umorismo e mordente che non risparmia né se stesso né gli altri. Emergono tutte le contraddizioni e i vizi che contraddistinguono i russi, e tra questi simpatici teatrini al limite del tragicomico il passato torna a bussare prepotentemente alla porta del giornalista Dalmatov perché tra i presenti si palesa anche Tasja, il suo grande e mai risolto amore risalente a una ventina di anni prima quando entrambi erano ancora in Unione Sovietica. A questo punto la narrazione continua su un doppio binario, indizio già contenuto nell’incipit che fa partire il romanzo con un occhio rivolto al passato:
Mia madre dice che un tempo mi svegliavo col sorriso sulle labbra. Questo avveniva più o meno, devo supporre, nel 1943. Provate a immaginare: tutt’attorno la guerra, i cacciabombardieri, lo sfollamento. E io che me ne stavo sdraiato a sorridere. Adesso è tutto diverso. Da circa vent’anni ormai mi sveglio con una smorfia di disgusto sulla faccia emaciata.

La descrizione di ciò che avviene al convegno è puntellata di numerosi flashback che riportano alla memoria la storia d’amore vissuta da lui e Tasja, un rapporto malsano tuttavia estremamente intenso che lo portò sull’orlo del baratro. Lei è rimasta la solita donna che era allora: eccentrica, viziata, instabile e bellissima. Dalmatov con quella vena malinconica che nei suoi lavori si accompagna alla leggerezza dell’ironia ricorda la sua gioventù, ci accompagna per gli ambienti universitari e i circoli letterari della Leningrado fine anni Sessanta, lui aspirante scrittore e boxeur amatoriale che per lei finì col trascurare gli studi e il suo futuro pur di starle accanto sempre e avere come unico pensiero il loro amore, su cui il richiamo al servizio militare gettò per sempre la parola fine. Che Dovlatov scelga l’amore, e un amore reale perché nella Tasja del romanzo si nasconde Asja Pekurovskaia con la quale Dovlatov ebbe effettivamente la sua prima importante storia d’amore, come argomento principale di una sua opera è peculiare, ma ho trovato estremamente piacevole il racconto di questa parabola dalle prime accecanti infatuazioni fino alla constatazione del fallimento personale, con il sottofondo chiassoso di letterati, giornalisti e politici che si agitano sul futuro della Russia. Anche trattando questo tema, non smentisce la sua vena umoristica e non smette di ricordarci il frivolo nonsense che abbraccia la nostra esistenza e che in qualche modo dobbiamo accettare.
IL PIATTO DEL LIBRO: cari amici slavofili o meno, io ricordo che quando andai in Russia non mangiai affatto male, tuttavia pesce e carne (oltre alla vodka, si capisce) erano abbastanza onnipresenti. Su tutti, i piatti che mi piacquero di più sono sicuramente i bliny, simili a dei pancakes solitamente farciti con panna acida e salmone affumicato o uova di salmone e i pel’meni, ossia dei ravioli con un ripieno tipicamente di carne e serviti anche questi per lo più con panna acida, che insieme alla vodka in Russia mettono un po’ ovunque. Per immergerci nello spirito e nella cultura russa io ho deciso di cucinare una versione plant-based proprio dei pel’meni, preparando la pasta con un misto di farina 00 e semola di grano duro (per renderla più consistente in modo che tenesse il ripieno in cottura vista anche l’assenza di uova nell’impasto) e come ripieno seitan macinato con cipolla e spezie. Non mi sono fatta mancare neanche la panna acida, di cui pure ho fatto una versione totalmente vegetale. Che dire, era la prima volta che preparavo la pasta ripiena a casa e c’è di sicuro margine di miglioramento, ma sono rimasta molto soddisfatta del risultato. Anche per quanto riguarda il gusto, sembrava di tornare alla memoria in uno di quei ristorantini sulla Neva, peccato solo che fuori dalla finestra qui a Milano il panorama fosse un po’ diverso. Vi va di volare in Russia con me? Sotto la ricetta dei nostri pel’meni 100% vegetali.

INGREDIENTI PER 2/3 PERSONE:
Per la pasta:
- 150 g farina 00
- 100 g semola di grano duro
- 118 g acqua (1/2 cup)
- 2 cucchiai di aquafaba (è l’acqua di cottura dei ceci, io l’ho prelevata dai ceci in barattolo)
- 1/2 cucchiaino di sale
Per il ripieno:
- 125 g di seitan
- 1 cipolla piccolo-media (tritata finemente)
- 1 spicchio d’aglio (tritato finemente)
- 1 cucchiaio di salsa di soia
- paprika affumicata q.b.
- maggiorana fresca q.b.
- noce moscata q.b.
- sale e pepe
- foglie di aneto per guarnire
Per la panna acida:
- 200 g di tofu vellutato (lo trovate da NaturaSì o simili)
- 2 cucchiai di succo di limone
- 1 cucchiaio di aceto di mele
- 1 cucchiaio di lievito alimentare
- 1 pizzico di sale
Per preparare l’impasto, come prima cosa mescolare in una bacinella l’aquafaba con l’acqua. In un’altra ciotola versa la farina setacciata e il sale. Lentamente versare i liquidi nella farina e mescolare. Trasferire l’impasto su un piano di lavoro preferibilmente in legno e continuare a impastare per diversi minuti fino ad ottenere un composto omogeneo ed elastico che mantenga però una certa fermezza perché dovrà essere poi steso sottile. Una volta terminato, lasciare a riposare con un canovaccio sopra per almeno 15 minuti.
Nel frattempo preparare il ripieno: tritate finemente il seitan con un robot da cucina, passatelo almeno un paio di volte e unite poi anche la cipolla, l’aglio e le spezie che potete inserire nella quantità desiderata a seconda del grado di aroma che vorrete ottenere.
Trascorso il tempo di riposo della pasta, prelevatene un terzo e lasciate il resto sotto al canovaccio in modo che non si secchi. Con un mattarello stendente la pasta molto sottile (io non ho una macchina per tirare la sfoglia, nel caso tanto meglio) e con l’aiuto di un coppapasta rotondo ottenete dei cerchi al centro dei quali riporrete un cucchiaino abbondante di impasto. Ripiegate una parte sull’altra facendo pressione ai bordi e infine unite le due estremità per ottenere la forma tipica dei pel’meni. Ripetete questa operazione con tutta la pasta mancante.
Fate cuocere poi in acqua salata bollente per 5-7 minuti e gustateli con della panna acida.
Per prepararla non dovrete fare altro che versare tutti gli ingredienti elencati sopra in un mixer e far andare per un minuto, e la vostra panna acida è immediatamente pronta per essere gustata.