Nella direzione opposta

Thomas Bernhard è uno dei più grandi scrittori europei del Novecento. Si è scavato il suo spazio nel panorama letterario creando uno stile unico e micidiale. Lessi per primo Il soccombente, mi bastarono poche righe per rimanere folgorata e da lì in poi divenne uno dei miei rifugi di intelligenza preferiti, uno dei ripari sicuri a cui tornare nei momenti di tempesta. E laddove si potrebbe leggere una letteratura pessimista, esageratamente negativa e polemica, io ci ho sempre visto la massima lucidità, lo sforzo della razionalità che scala le insensatezze dell’esistenza e con difficoltà arriva in cima per godere di un panorama che regala una visione a 360°.

Come dissi già una volta, si potrebbe dire, con qualche margine di generalizzazione, che Bernhard nella sua vita abbia scritto un solo lungo libro: la sua penna è immediatamente riconoscibile grazie a uno stile in cui il come è perfettamente a servizio del cosa – anche se a suo dire il come lo interessò sempre più del cosa – e in effetti le tematiche che troviamo nei suoi romanzi sono ricorrenti. Ne cito alcune: l’ottusità delle convenzioni sociali, le difficoltà della vita familiare, pensieri sulla morte, la malattia e il suicidio, raccontate per lo più tramite monologhi, flussi di pensiero ininterrotti in cui il pensiero si dirama, si flette, salta ostacoli, ripiega su se stesso, si scontra con l’ossessione della ripetitività, dell’esagerazione per poi lanciarsi a momenti in libere corse. Tutti concetti che, a dire la verità, ne nascondono solo uno e fondamentale: la vita come teatro.

Ultimamente ho letto La cantina, romanzo abbastanza breve che fa parte dei cinque che insieme a L’origine – un accennoIl respiro – una decisioneIl freddo – una segregazione e per ultimo Un bambino compongono la sua autobiografia. Ne La cantina in particolare parla di un momento decisivo nella sua adolescenza quando scelse di abbandonare il ginnasio per andare nella direzione opposta. Direzione opposta in tutti i sensi, metaforicamente e letteralmente, lasciando quindi il ginnasio in uno dei quartieri più posh di Salisburgo per andare a fare l’apprendista in una cantina di alimentari nella parte più malfamata e degradata della città, decisione che significò per lui la sopravvivenza, la migliore che potesse prendere.

Ragioni per cui dovreste leggere questo libro:

  • se volete essere storditi (positivamente, si capisce);
  • se in un libro vi interessa più la fattura della trama;
  • se ritenete che la consapevolezza nella vita sia un bene prezioso e non un mostro da cui scappare;
  • se siete a un punto di svolta nella vostra vita e avete bisogno di andare nella direzione opposta;
  • se volete ridere, perché l’arte dell’esagerazione ha in sé il germe del comico;
  • se vi fanno passare per misantropi, ma poi si sa che non è questo il punto;
  • se odiate gli austriaci (no scherzo, questo non prendetelo davvero in considerazione).

IL PIATTO DEL LIBRO: A proposito, si sa che Bernhard molto spesso nei suoi libri non la tocca leggera con l’Austria, il suo paese, agli austriaci gliene ha dette di tutti i colori, quindi mi sembra giusto proseguire sulla sua linea, spingere le cose fino all’estremo e creare per questo secondo appuntamento di settembre proprio un piatto tipicamente austriaco (viennese) per il nostro Bernhard: la cotoletta, ma nella direzione opposta: vegana! La versione che vi propongo qui è mutuata da diverse cose trovate sul web, ma rifatta con il mix di ingredienti che ho trovato più di mio gusto. Potete accompagnarla con il contorno che volete, ma io sono andata proprio sul classico.

INGREDIENTI per 4 persone:

  • 150 g farina di ceci
  • 100 ml acqua temperatura ambiente
  • 1 cucchiaino di sale
  • 1 pizzico di paprika affumicata
  • 1 cucchiaio fecola di patate
  • 1 cucchiaio di olio evo
  • 1 cucchiaino di senape
  • farina di mais q.b. per impanare alla fine
  • limone e prezzemolo per guarnire
  • burro vegetale q.b.

PROCEDIMENTO:

Unite in una ciotola tutti gli ingredienti tenendo per ultimi olio e acqua, mescolate fino a ottenere una pastella morbida ma abbastanza compatta e lasciate riposare per almeno mezz’ora/un’ora.

Versate il pangrattato in una ciotola, prelevate un cucchiaio generoso di pastella e passatela nel pangrattato schiacciandola poi con le mani per darle la forma di una cotoletta.

Nella versione originale, la Wiener schnitzel viene fatta cuocere nel butterschmalz (burro chiarificato), quindi anziché usare l’olio, ho fatto sciogliere in una padella antiaderente una noce di burro vegetale e fatto cuocere le cotolette 2 minuti circa per lato fino a doratura, prestate attenzione che non si brucino.

Servitele con un po’ di limone spremuto (questo aiuterà anche l’assorbimento del ferro) e del prezzemolo sminuzzato, più il contorno che preferite.

CITAZIONE DAL LIBRO:

Noi ci domandiamo spesso che cosa sia e dove stia la felicità, perché questo è il solo interrogativo che ci appassiona sempre e per tutta la vita, senza mai darci tregua. Ma a questo interrogativo non dobbiamo dare risposta se siamo saggi e non vogliamo sporcarci con la nostra sporcizia più di quanto ci siamo già sporcati. Io cercavo il cambiamento, l’ignoto, forse anche l’eccitante e l’inquietante, e tutto ciò l’ho trovato nel quartiere di Scherzhauserfeld. Non sono entrato con compassione nel quartiere di Scherzhauserfeld, ho sempre odiato la compassione e, più profondamente che mai, l’autocompassione. Non mi sono mai permesso di avere compassione e ho agito solo per motivi di sopravvivenza. Già sul punto di mettere fine alla mia vita per tutti i motivi, ho avuto l’idea di interrompere la strada che stavo percorrendo già da molti anni con morbosa ottusità e mancanza di fantasia e sulla quale mi avevano messo con la loro tetra ambizione i miei educatori, e allora ho fatto dietrofront e sono tornato indietro di corsa per la Reichenhaller Strasse, in un primo momento sono tornato soltanto indietro, senza sapere dove stessi andando mentre tornavo indietro. Da questo momento in poi mi occorre qualcosa di completamente diverso, ho pensato, non ho pensato altro in quell’agitazione, qualcosa di completamente opposto rispetto a quanto fatto finora […] Qui non c’erano professori di matematica, né professori di latino, né professori di greco, e non c’era neppure un direttore dispotico al cui solo apparire mi sentissi inevitabilmente mozzare il respiro, qui non c’era nessuna istituzione micidiale. Qui non c’era la continua necessità di controllarsi, di chinare il capo, di fingere e di mentire pur di sopravvivere. Qui tutto quello che ero non veniva continuamente esposto agli sguardi critici, già di per sé micidiali, e non si pretendevano continuamente da me cose inaudite, disumane, o meglio la disumanità stessa. Qui non ero ridotto a una macchina per imparare e per pensare, qui potevo essere me stesso.

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